Nella “Commedia”, poema dell’odio a luci rosse, il personaggio principale è Giovanni Boccaccio.

Firenze nello scorcio fra il Duecento e il Trecento non fu una città segnata da forti ambizioni culturali. La città era ricca e potente, ma non colta.
Basti pensare alla formazione di Dante, la cui famiglia non disponeva di mezzi sufficienti per procurare al futuro poeta un’istruzione adeguata.
Il padre Alighiero era un piccolo usuraio non in grado di mantenere il figlio a studiare in una grande città universitaria o di pagare insegnanti privati di notevole livello, peraltro inesistenti a Firenze.
Inoltre, allora, per affrontare gli studi universitari bisognava sapere il latino, la lingua dei dotti, e Dante con quella lingua incontrò sempre una certa difficoltà, come  testimonia il suo maestro senese. 
Senza dubbio il notaio fiorentino Brunetto Latini non sarebbe stato in grado di formarlo culturalmente, nonostante quanto gli fa dire nella Commedia lo stesso Dante, il quale da giovane aveva frequentato Cecco Angiolieri, un colto notaio senese autodidatta nato una decina di anni prima di lui, che nel 1313, accusato di eresia da un tribunale ecclesiastico senese, si salvò da una grave condanna fuggendo in esilio.
Nessuno sul senese si è ancora reso conto che, forse proprio durante l’esilio, a Milano preparò privatamente molti giovani agli studi universitari, oltre a comporre in latino un’opera di grande rilievo come il De magnalibus urbis Mediolani, per la sua modernità e profondità non certo attribuibile a uno sconosciuto Bonvesin da la Riva, solo uno pseudonimo.
Tuttora si ritiene che Cecco da giovane fosse un donnaiolo accanito in base a quanto è possibile dedurre dai Sonetti da lui composti sotto il suo vero nome, forse per dare di sé un’immagine fuorviante, ma la verità è che suo padre Angioliero, un ricco banchiere, nel tentativo di correggere le inclinazioni sessuali anomale del suo unigenito, lo costrinse a un matrimonio infelice e a un’esistenza tormentata: la nascita di cinque figli servì solo a aggravare la situazione.
Intorno al 1313 Cecco, accusato di eresia, a Siena fu processato da un tribunale ecclesiastico. I manuali in base a un documento ufficiale ne segnalano la morte, molto improbabile, che sarebbe avvenuta nello stesso anno. Di sicuro il senese fuggì in esilio e condusse una vita lunghissima conclusasi nel 1375 a Certaldo sotto lo pseudonimo di Giovanni Boccaccio.
Eccone le prove. 
Ai senesi, riluttanti a condannarlo al rogo, forse bastò liberarsi della presenza scomoda di Cecco, che nel 1321, vivo e vegeto, tramite due poeti suoi prestanome (uno era Cino da Pistoia), novello Alceo, esultò per la morte prematura del nemico Dante.
Se Cecco fosse morto nel 1313, la fioritura culturale europea non sarebbe avvenuta o sarebbe stata molto limitata e senz’altro diversa.
Poliglotta d’eccezione portato alle lingue antiche e moderne, autodidatta intelligente e geniale, l’Angiolieri è destinato a diventare il vero padre della lingua italiana (fra l’altro è suo il De vulgari eloquentia, per il cui tramite mirò soprattutto a autenticare certe proprie composizioni che fanno parte della letteratura italiana delle origini,  attribuite a vari prestanome) e di una cultura europea dalla quale, pur alterata, nacquero l’Umanesimo e il Rinascimento.
Il fatto grave è che gli specialisti finora non si sono neanche resi conto che il notaio senese più di una ventina di anni dopo la morte di Dante assunse lo pseudonimo di Giovanni Boccaccio. Le prove le ho ricavate mettendo a confronto parte del contenuto di un canto dell’Inferno con il sottotitolo del Decameron, finora entrambi male interpretati, ma già nel 2009 sostenni questa ipotesi analizzando alcune novelle dello stesso capolavoro in un saggio intitolato Il “Decameron” è di Cecco Angiolieri.
Per Dante giovane quello con Cecco costituì un incontro fortunato, perché altrimenti un poema come la Commedia sarebbe rimasto nel mondo dei sogni, ma fu anche un grosso guaio, visto che la sua vita fu fortemente amareggiata dai rimorsi provocati dalla relazione con il senese bisessuale.
Senza dubbio, in base alle prove da me scoperte, nei rapporti fra i due ci deve essere stato del torbido che trattenne il sommo poeta, timoroso di rivalse, dal denunziare apertamente il suo maestro come grande peccatore e falsario.
L’Alighieri con tale comportamento mirò soprattutto a presentarsi sotto un’immagine appropriata all’autore del poema sacro, e dalla sua omessa denuncia, unita all’insipienza e al campanilismo dei dantisti, trasse vantaggio il successo infinito di una Commedia compresa solo in minima parte. Tuttavia il guaio maggiore è stato per la cultura europea indirizzata su un percorso anomalo.
Da anni ripeto nei miei scritti che le opere minori attribuite all’Alighieri sono falsi di Cecco. A dimostrarlo sono soprattutto certe particolarità linguistiche: gli studiosi, non tenendo conto delle differenze fra il volgare fiorentino e il senese antico, non ci sono arrivati, e di recente hanno eretto un muro di silenzio contro le mie ipotesi, legittimate, fra l’altro, dal contenuto del sonetto Guido, i’ vorrei, non certo dantesco e ritenuto il più bello della letteratura italiana, da me spiegato nella mia edizione delle Rime in modo molto diverso da quello secolare dei commentatori più seguiti e stimati.
In esso, basandomi su un’espressione popolaresca senese, molto volgare, finora non saputa interpretare nemmeno da uno studioso del valore di Gianfranco Contini, ritenuto il principe dei filologi romanzi del ventesimo secolo, ho affermato nella mia edizione delle Rime (ilmiolibro.it, Siena 2014) che Beatrice, per Dante la donna-angelo, viene definita una puttana: la paternità di quel sonetto può essere solo attribuita a Cecco, intenzionato a vendicarsi a ogni costo dell’alunno irriconoscente che, forse preso da rimorsi morali tardivi, lo aveva condannato nel suo poema come pluripeccatore, celandolo tuttavia prudentemente sotto numerosi pseudonimi cui il senese aveva fatto ricorso per la propria attività di falsario.
Premesso questo, la Commedia è destinata a divenire un’opera completamente nuova alla luce delle scoperte relative all’attività di Cecco, al quale per me si devono, fra gli altri, capolavori immensi come Iliade, Odissea, Eneide.
Se questi svelano nel senese un autore di grandezza impareggiabile, tale da farci sulle prime perfino guardare con una certa indulgenza al comportamento di Dante, è opportuno che, senza lasciarsi andare a giudizi moralistici sul fiorentino, che tuttavia si è fatto vanto della propria coscienza netta, molto debba essere messo meglio a fuoco in base al dramma umano che viene fuori dalla Commedia, poema che ora appare ai nostri occhi molto meno sacro e divino rispetto al passato.
Ma, a parte ciò, siamo solo all’inizio di una rivoluzione che investirà l’assetto delle letterature su cui è basata l’istruzione di mezzo mondo.
L’11 gennaio del 2020 ho letto sul “Corriere della Sera” che Poste Italiane sarà la prima grande realtà nazionale a sostenere le prossime celebrazioni per i 700 anni della morte di Dante. Per queste celebrazioni e per il Dantedì, fissato al 25 marzo, si stanno formando comitati che coinvolgeranno più di 70 Comuni del territorio nazionale. Se ho capito bene, l’operazione sarà finanziata con due milioni di euro provenienti per metà dalle Poste e per metà dallo Stato.
Siena non si è tirata indietro da questa iniziativa e ha già istituito un proprio comitato dantesco: forse l’ha fatto per gratitudine verso Dante che definì gente vana gli abitanti della città.
L’atteggiamento noncurante e rinunciatario dei senesi verso un autore come Cecco, a mio parere destinato presto a essere riconosciuto come la gloria maggiore per Siena, si spiega solo con la loro cieca fiducia riposta in cattedratici filofiorentini, non solo italiani, che si appoggiano a vicenda marciando uniti in colonna, legati ai propri interessi, fermi su posizioni secolari e timorosi di fare una brutta figura se risultasse che non abbiano saputo distinguere un numero rilevanti di falsi presenti non solo nella letteratura italiana delle origini, ma anche nell’intero patrimonio letterario europeo, da Omero fino al cosiddetto Boccaccio.
Siamo solo all’inizio di una rivoluzione destinata a dare un nuovo assetto alla letteratura su cui è basata l’istruzione scolastica di mezzo mondo.
Per fare un altro esempio significativo, sarà da togliere a Marco Polo la paternità di un grande capolavoro come il Milione, attribuito a uno sconosciuto mercante veneziano, improbabile autore di un unico libro nel quale domina il senese antico, in parte abilmente alterato da Cecco.
Siccome la faccenda è un po’ ardua e lunga a spiegarsi, chi voglia rendersi meglio conto di altri particolari e soprattutto di quello piuttosto complesso per cui il personaggio principale della Commedia è identificabile in Cecco-Boccaccio, non ha che da leggere il mio saggio recente intitolato Una tempesta letteraria mette a soqquadro la “Commedia” di Dante e la cultura europea (Aracne 2019).