Un verso di Virgilio a Ground Zero scuote le basi culturali dell’Europa..

A New York, sul monumento in memoria delle vittime dell’11 settembre, campeggia la traduzione  inglese del verso virgiliano Nulla dies umquam memori vos eximet aevo del IX libro dell’Eneide: NO DAY SHALL ERASE YOU FROM MEMORY OF TIME    Virgil.
La mia impressione immediata è che nessun altro verso avrebbe meglio potuto esprimere il concetto che “nessun altro giorno tragico come questo potrà cancellarvi dalla memoria dei posteri”.
I guai vengono fuori quando si esamina il passo del poema da cui il verso è stato ripreso, vale a dire l’episodio dei giovani Eurialo e Niso. Le contestazioni non sono mancate, come ha messo in evidenza Alessandro Schiesaro in un articolo apparso sul Domenicale del quotidiano “Il Sole 24 Ore” (10 agosto 2014). Scrive Schiesaro che dopo l’inaugurazione le polemiche si sono fatte più intense su un verso di uno degli episodi più famosi dell’Eneide, che il filologo riassume così:

“La guerra tra i Troiani e i Latini che li respingono dalle proprie terre è iniziata da poco… Cala la notte sull’accampamento troiano. Niso, e il più giovane Eurialo, «di cui nessuno più bello fu tra i fidi d’Enea», fanno da guardia alle porte, ma bramano di poter colpire il nemico in una sortita. È una folle passione a animarli, l’unica strada per attingere alla gloria. Invasati fanno strage di uomini in preda al sonno e al vino. Eurialo indossa l’elmo strappato alle spoglie di Messapo. Cavalieri nemici lo avvistano sulla via del ritorno. Niso torna indietro a difenderlo, per morire anch’egli abbattuto sul compagno già esanime. È alla fine di questo episodio che Virgilio, per l’unica volta in tutto il poema, prende la parola in prima persona. «Fortunati l’uno e l’altro! Se posson qualcosa i miei versi / mai nessun giorno al ricordo vi toglierà dei futuri, / fin che la casa d’Enea del Campidoglio l’immobile / rupe dòmini e il padre Romano abbia impero» (così traduce Rosa Calzecchi Onesti)”.
Alice Greenwold, la direttrice del National Memorial, alla obbiezione che chi ha scelto quel verso non deve aver letto Virgilio ha ribattuto non essere tanto importanti i dettagli della narrazione virgiliana quanto il riferimento al fatto che “un singolo giorno non potrà cancellare la memoria di coloro che amiamo”. Secondo Schiesaro nessun giorno futuro, non quello della loro morte, può cancellare la memoria dei caduti. Io all’inizio ho parlato di “nessun giorno altrettanto tragico”.
Forse sarà meglio sorvolare sull’interpretazione del verso, ma non ha tutti i torti Schiesaro a sostenere che esso può farsi memorial solo se si dimenticano Eurialo, Niso, l’Eneide e in fondo anche Virgilio: “Eurialo e Niso sono celebrati non perché vittime, ma perché autori di una strage notturna che comunque stride con i canoni del duello epico a viso aperto”. Inoltre il gesto dello stesso Niso “risulta monco se si ignora la tensione omoerotica tra il nuovo Achille e il nuovo Patroclo”.
Termina lo studioso aggiungendo: “Dopo le polemiche, il verso resta al suo posto, unito al nome dell’autore. È scomparso, invece, il riferimento all’Eneide, nella speranza, si presume, che questo ulteriore gesto di decontestualizzazione attenui il potenziale eversivo della citazione”. Tutto ciò ha  sortito l’effetto opposto “riportando l’Eneide e il suo poeta al centro della discussione e dimostrando che davvero non esistono testi senza contesto, e senza interpretazione…”.
Da parte mia, pur d’accordo in generale con gli argomenti dei contestatori e di Schiesaro, ritengo che si possa andare oltre nella questione, se ho ragione a sostenere da qualche anno che l’Eneide a noi tramandata dai codici non è opera autentica di un poeta chiamato Virgilio, bensì un falso medievale di Cecco Angiolieri, che “passò la sua lunga vita a ricreare la cultura del mondo classico e medievale scomparsa durante il periodo delle invasioni barbariche e dei secoli bui a esse susseguiti”, come ho scritto nell’introduzione del mio ultimo saggio.
La questione non si limita a Virgilio, cui ho dedicato due articoli nei libri La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa (Aracne 2011) e Risolta la questione omerica (Betti editr., Siena 2012), ma coinvolge tutta quanta la cultura classica, come sostengo nel mio recente L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angioleri  (Siena 2014, ilmiolibro.it).
A questo punto, facendo riferimento soprattutto a un articolo sul Culex virgiliano che figura nel mio saggio sulla questione omerica, riassumerò in breve quanto negli ultimi anni ho scoperto su Cecco: imbevuto in gioventù di ideali patarini, mai del tutto ripudiati, e animato da una visione francescana della vita, condannato a Siena da un tribunale ecclesiastico per eresia e divenuto un morto vivente costretto all’esilio, ama la semplicità dell’esistenza dei pastori, che rifuggono dalle lotte crudeli e dalle guerre cruente, figlie della ricchezza eccessiva che porta solo insoddisfazione e angoscia. Il modo di vivere del pastore viene da lui contrapposto a quello del guerriero. Per capirlo basta leggere alcuni poeti sotto i quali si cela il falsario senese.
Pastore equivarrebbe a poeta, e di poeti-pastori sono piene le letterature di Grecia e di Roma, ricreate da un Angiolieri geniale, finora ritenuto solo un bravo poeta realistico medievale, guastato da una vita sregolata e dissipata, a mio parere solo un semplice espediente diversivo su cui il senese ha calcato la mano.
E neppure si può escludere dal novero di questi poeti-pastori un personaggio di Cecco-Omero come il Ciclope Polifemo (ce lo attestano il significato del suo nome e i suoi amori con Galatea descritti in un idillio da un Teocrito molto sospetto), sotto il quale si cela il senese che sembra voler vendicare con il suo comportamento crudele e selvaggio i pacifici troiani, dediti prevalentemente alla pastorizia, con il pretesto di un’umanissima vicenda amorosa aggrediti, depredati e quasi sterminati dai greci avventurieri, assetati di rapine e di bottino.
Dei greci i romani, apparentati con i troiani capeggiati da Enea, giunti esuli in Italia, hanno ripreso gli ideali di potenza e di sopraffazione.
Identici sono i motivi di fondo che pervadono le opere di poeti come Properzio, Tibullo, Virgilio, Orazio, Ovidio, e anche quelli di storici come Livio, Svetonio e Tacito, della cui attività la molla vera e segreta è tutta da scoprire, perché a un lettore attento non sfugge l’avversione profonda presente nelle loro composizioni contro lo spirito di conquista e di oppressione che ha animato i romani volti al dominio del mondo.
I capolavori infiniti del cristiano eretico Cecco, che apparentemente tenderebbero a celebrare il glorioso percorso del popolo romano verso lo splendore di un impero inimitabile e inarrivabile, in effetti mirano solo a dimostrare che potenza e ricchezza, non sostenute da princìpi di vera giustizia e di fratellanza, sono cose effimere, maestosi edifici costruiti sulla sabbia: la seconda Roma, più grande e più civile, sarà quella che sorgerà sulle basi dei più umani ideali religiosi e morali cristiani. Condivisibile o no, questo appare il pensiero di fondo che anima le opere di Cecco, celato sotto le vesti dello storico Orosio e di altri suoi pseudonimi, fra cui uno è sant’Agostino, ma c’è da tenere presente che un alter ego del senese risulta anche il Platone padre di uno stato ideale organizzato in base a criteri comunistici.
Il tutto apparirà forse un po’ sbrigativo, ma è sufficiente per capire le contraddizioni presenti nell’episodio di Eurialo e Niso dell’Eneide.
Risulta contraddittorio che Cecco-Virgilio celebri la morte dei due giovani i quali, in cerca di gloria e bottino, durante una loro sortita notturna hanno fatto strage di nemici immersi nel sonno, ma nelle scaturigini di un impero sorto dalle lotte di un popolo costretto a lasciare la propria terra, il sangue e le rapine sono qualcosa di inevitabile, e perfino giustificabile in vista di una seconda Roma più grande e civile.
Tuttavia nell’episodio, come ha messo in luce Schiesaro, c’è anche il rapporto omoerotico fra Eurialo e Niso, spiegabile in base alla natura bisessuale dell’autore: Dante, amico-alunno di Cecco, e in seguito suo fiero avversario, per vendetta lo pone nel girone infernale dei peccatori contro natura, celato sotto il nome di Brunetto Latini, come nessuno prima di me aveva compreso.
Cecco-Boccaccio nelle Esposizioni, parlando di un sodomita nominato nella Commedia, giustificherà indirettamente questa propria condotta peccaminosa come una breve parentesi giovanile, ma la sua inclinazione verso i rapporti omoerotici trapela dalle opere di tutti i suoi infiniti pseudonimi, giunte fino a noi tramite i codici medievali, da Omero, Saffo, Platone, Virgilio, fino a Petronio Arbitro e oltre. Lo stesso personaggio di Alessandro Magno, novello Achille, al centro delle narrazioni di vari prestanome angioliereschi, non sembra sfuggire a siffatta tendenza, di cui ho scoperto le tracce anche nel Cecco-Agostino delle Confessioni.
Cecco-Virgilio ama tanto i suoi giovani personaggi, belli come Eurialo, quanto Cecco-Socrate è attirato dalla bellezza e dalla cultura di Alcibiade. Lui da patarino mai pentito è incline alla sessualità libera, e odia e aborre la violenza, le guerre sanguinose e il desiderio di potenza e di ricchezza alle loro radici.
L’Iliade e l’Eneide stanno a provarlo. I duelli infiniti e le stragi mirano a generare nel lettore un senso di sgomento e di ripulsa. Dietro la morte prematura di tanti giovani eroi si avverte il dolore profondo del poeta che ne ha descritta la breve parabola di gloria e di sangue. Le frequenti espressioni formulari omeriche come “Gli si sciolsero le ginocchia” e “La tenebra gli velò gli occhi” appaiono intrise di mestizia e di lacrime.

A questo punto mi rimane solo da aggiungere che, se non si può fare a meno di capire le ragioni di chi come Schiesaro e altri hanno criticato l’opzione di quel verso per ricordare la strage dell’11 settembre, tuttavia apparirebbe obbligata la scelta di un autore simile, all’opera più significativa del quale attingere un epitaffio per quella tragedia immane.
Cecco, senese del Due-Trecento, era un grande falsario che celava in sé poeti come Omero, Archiloco, Saffo, Lucrezio e Virgilio, filosofi come Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino, storici come Erodoto, Tucidide, Tito Livio, Tacito e Paolo Diacono.
Quel verso scelto per il National Memorial di Ground Zero sarà anche discutibile, ma basta il nome pregnante di Virgilio per imprimere sul ricordo di quella tragedia un suggello che durerà finché ci sentiremo legati alla grande cultura europea scomparsa negli anni bui: su di essa, ricreata da Cecco il falsario, ci piaccia o no, poggiano le basi della nostra civiltà occidentale.

Se ho ragione a sostenerlo, Alice Greenwald avrebbe diritto a chiedere agli specialisti, che contestano con argomenti precisi e puntuali la scelta di quel verso, perché in tanti anni nessuno di loro si sia accorto che tutto lo splendido edificio umanistico, studiato, analizzato e interpretato con cura nei singoli particolari, assomigli a un bel castello di carte.
Si può arrivare a discutere sull’opportunità della scelta di un verso che fa parte dell’Eneide, ma non a giustificare l’incomprensione totale durata secoli di un poema epico risalente al tardo Medioevo, ritenuto autentico fino ai nostri giorni.
Se io, maestrucolo aspirante filologo, venissi chiamato in causa, non esiterei a spiegare che ciò è avvenuto perché nessuno di quegli illustri studiosi aveva una conoscenza approfondita del volgare senese antico, la chiave per accedere con successo alla questione omerica e a quelle non meno ardue e misteriose legate alle letterature classiche e altomedievali europee.
Quella chiave è mancata anche a Lachmann, Wolf e Wilamovitz, forse i più grandi filologi di ogni tempo. La strenua difesa di quanti sostengono a spada tratta l’assetto attuale delle letterature europee, e non sono dilettanti ma specialisti accademici, incentrata sull’argomento che un solo autore non avrebbe neanche potuto trovare il tempo necessario per attuare la metà di un piano letterario simile, non è degna di studiosi con apprezzate carriere universitarie alle spalle: per capire la grandezza di un artista fuori dell’ordinario, un po’ di cultura e di tecnica filologica non bastano.
Dai falsi di Cecco in greco, in latino e nei volgari europei più importanti, a saperli leggere, si avvertono le tematiche e lo stile singolare di un genio impareggiabile.
Di questo si dovrebbe incominciare a parlare se si avesse a cuore di fare piena luce su tutta la letteratura europea ritenuta essere giunta fino a noi per via diretta tramite i codici medievali, ma l’atteggiamento di netta chiusura, sprezzante e scostante di tutti gli studiosi, italiani e stranieri, che danno più che altro l’impressione di temere per il loro futuro e le loro carriere, ha impedito finora ogni minimo dialogo e confronto.
Un grande editore italiano alcuni anni indietro mi scrisse dicendosi interessato alle mie ricerche sulle opere di Dante e disposto a recensirle. Lo accontentai inviandogli due o tre mie pubblicazioni sull’argomento. Non mi ha fatto sapere più niente, certamente scandalizzato delle mie affermazioni che tutte le opere minori dell’Alighieri siano dei falsi di Cecco, che tuttora i dantisti non abbiano saputo dare una spiegazione decente di passi importanti della prima e della seconda cantica della Commedia e che, a guardare bene, il sommo poeta risulti molto diverso dallo stereotipo che si continua a dare di lui.
Da allora ogni tentativo di fare conoscere il punto di arrivo delle mie ricerche tramite quotidiani e periodici è fallito. Non credo di essere un mitomane o uno sprovveduto: in tempi lontani mi laureai in Papirologia greca, primo in Italia.
Che io non segua il metodo, a mio parere dimostratosi fallimentare, da lungo tempo in uso nel sodalizio filologico, non vuol dire niente: importante è stato arrivare a qualcosa di concreto, che forse rivoluzionerà l’assetto delle letterature europee del passato.
Non è un po’ strano che finora sia rimasta ignota la paternità di grandi capolavori come BeowulfNibelunghiChanson de RolandPoema del mio CidDigenìs Akrìtas? Penso che gli inglesi, i tedeschi, i francesi, gli spagnoli e i greci un certo interesse per tutto questo dovrebbero averlo. Ne ho parlato in un saggio del 2011, segnalando prove evidenti e facendo nome e cognome di chi per me ne è l’unico autore, ma finora nessuno ha speso una sola parola al riguardo.
Se ho ragione, specialisti accademici di tutto il mondo finiranno per fare una figura molto magra. Si accapigliano su un verso, ma hanno compreso molto poco su migliaia di pagine della cosiddetta cultura europea, che poi è tutta di marca italiana, grazie al geniale falsario Cecco Angioleri, nativo di una Siena che appare racchiudere in sé la grande cultura scomparsa di Atene, di Roma e della civiltà altomedievale, conosciuto anche sotto lo pseudonimo di Giovanni Boccaccio da Certaldo, un paese ironicamente celebrato nello stesso Decameron per la qualità delle sue cipolle: il senese dai mille volti con i suoi falsi sublimi in latino ingannò anche l’amico umanista Francesco Petrarca, che gli voleva bene ma non lo teneva in grande considerazione.

Quest’articolo è stato pubblicato sul periodico “Le Antiche Dogane”  nel dicembre 2014