Un autografo di Giacomo da Lentini e la poesia siciliana.

Sul  Domenicale del SOLE 24 ORE  del 17 gennaio scorso ho letto un articolo piuttosto interessante di Matteo Motolese, intitolato Giacomo, facci l’autografo. Viene annunciata la scoperta in una pergamena contenente “un privilegio imperiale al monastero di San Salvatore, vicino a Messina”, che risale al giugno del 1233 e che è stato vergato “per manus Iacobi de Lentino Notarii et fidelis nostri, in cui quel nostri si riferisce a Federico II e quel Iacobi de Lentino altro non è che Giacomo da Lentini, massimo poeta della Scuola siciliana”.
La scoperta è stata fatta da Giuseppina Brunetti, ricercatrice di Filologia romanza dell’Università di Bologna. La studiosa nella stessa pagina del Domenicale rifà in breve la storia di questo suo ritrovamento importante avvenuto a Toledo. A Giacomo da Lentini, cui è assegnata  comunemente l’invenzione del sonetto, Roberto Antonelli ha dedicato uno dei tre volumi dell’edizione di Mondadori  sui  Poeti della Scuola siciliana uscita nel 2008. Non c’è che da complimentarsi con la scopritrice piena di legittimo entusiasmo e con Matteo Motolese per il suo bell’articolo, dal quale il lettore apprende che “della Scuola poetica siciliana… abbiamo perso praticamente tutto”, che “i protagonisti della prima stagione poetica italiana sono, per noi, poco più che ombre: sappiamo a malapena i loro nomi, qualche sparso dato biografico; la loro stessa poesia ci è arrivata quasi attraverso riscritture toscane, tanto che la lingua letteraria da loro usata è ancora, in buona parte, un mistero”.
Di Giacomo da Lentini, “poeta capace di una delle scritture più alte della nostra letteratura”, cui vengono attribuiti in base alle didascalie dei codici una trentina di componimenti fra sonetti e canzoni, il Motolese riporta questi versi di “rara bellezza”:

     A l’aire claro ò vista ploggia dare,
ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere clarore;

Al di là di un improbabile idioma siciliano, questi versi per stile, ritmo e lessico ne ricordano altri famosi. I nomi che si affacciano subito alla mente sono quelli di Guido Guinizzelli e di Folgóre da San Gimignano, ma anche di altri che per me sono tutti  pseudonimi di Cecco Angiolieri. La cosa che più colpisce è che temi, particolarità stilistiche e intere espressioni di Giacomo sono comuni anche a molti altri poeti della Scuola siciliana, da Cielo d’Alcamo, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Pier della Vigna, Giacomino Pugliese fino a Federico II e a suo figlio Enzo. I critici non trovano niente da ridire su questo: si tratta di poesia che nasce e si sviluppa nella Magna Curia e non c’è da meravigliarsi che in essa compaiano espressioni e stilemi simili o quasi identici.
Dico come la penso: per me sarebbe l’ora di farla finita con questa bella favola della Scuola siciliana che nella prima metà del Duecento presso la corte di Federico II scocca “come prima scintilla della migliore poesia italiana”, dove c’è “l’incontro tra lingue e culture diverse” e lo stesso imperatore “era visto dai contemporanei come in grado di passare dal latino al greco, al tedesco, all’arabo oltre che ovviamente al siciliano; nella biblioteca che portava con sé nei suoi spostamenti i testi della medicina araba trovavano posto accanto ai codici della letteratura provenzale”.
Un bel quadretto, non c’è che dire, e qualcosa di vero in tutto questo ci può anche essere, ma quanto alla “saldatura fra corte, potere politico e letteratura che – a meno di cinquant’anni dal crollo della dinastia sveva – Dante vedeva già come qualcosa di mitico a cui ritornare”, ci andrei molto cauto. Prima, siccome senza dubbio si allude al Dante del De vulgari e del De Monarchia,  sarebbe bene vedere come stanno realmente le cose nei due trattati, per me  bellissimi falsi composti da Cecco per i motivi che ho spiegati più volte negli articoli precedenti, oltre che nell’Introduzione del  Fiore.
In un’appendice del mio Il “Decameron” è di Cecco Angiolieri mi sembra di aver dimostrato che è fuori luogo anche l’attribuzione a Federico II di quel trattato splendido che s’intitola De arte venandi cum avibus. L’imperatore era un uomo d’azione e non avrebbe avuto il tempo per scrivere un’opera di alcune centinaia di pagine, per di più in latino,  e neanche l’avrebbe considerato conveniente alla propria dignità. Ha poco senso obbiettare che aveva fra i suoi funzionari uomini di cultura che sarebbero stati in grado di aiutarlo o addirittura di sostituirsi a lui nella composizione di un’opera così imponente e impegnativa.
È inutile gingillarsi con simili ipotesi: il De arte venandi è un capolavoro in cui si avverte la mano di un grande artista che il latino lo conosceva bene,  non solo il latino burocratico, e conosceva bene quel tipo di caccia non tanto forse per averla praticata lui stesso, ma anche per averne date notizie e descrizioni significative in un grande libro di successo intitolato Il Milione. Un piccolo ma splendido assaggio della sua abilità artistica sotto questo riguardo ce lo ha dato  nel sonetto pseudodantesco Sonar bracchetti e in alcune composizioni memorabili sotto le false vesti di Folgóre da San Gimignano e del suo bravo alter ego Cenne, costretto a fare il bastian contrario. Quel grande artista si chiama Cecco Angiolieri, che servendosi di una tattica impiegata anche altrove, dal suo pseudonimo Giovanni Villani nella Nuova Cronica fa attribuire l’opera al grande imperatore: quel nome famoso, inoltre, avrebbe certamente impedito che su  quello scritto costato tanto lavoro cadesse l’oblio.
Veniamo al sodo: nella Sicilia del primo Duecento (come  del resto in quella della seconda parte del secolo) non ci potevano essere le condizioni culturali, sociali e politiche in grado di avviare una letteratura raffinata e moderna quale viene  attribuita a quella Scuola. Tali condizioni erano invece tutte presenti in Toscana, dove una miriade di falsi poeti, si chiamino Guittone, Rustico Filippi, Guinizzelli, Cavalcanti, Cino da Pistoia, Folgóre, Cenne, Monte Andrea, Dante da Maiano, Guido Orlandi, per non dire dello stesso Dante e di tanti altri di cui mi sono stancato a dare l’elenco, sono tutti riconducibili al solo Cecco falsario che sotto il suo vero nome ci ha affidato una raccolta di cento sonetti e poco più, forse con l’intento preciso di lasciare di sé un’immagine falsamente eloquente,  in notevole misura contraffatta e depistante.
È probabile che almeno da giovane l’Angiolieri abbia avuta una certa inclinazione per la bella vita non molto regolata, ma se si legge attentamente in quell’incredibile caleidoscopio, soprattutto di prose, che ci ha lasciato, il ritratto più attendibile che ne emerge è quello di un uomo di “orrevole famiglia”, “assai costumato”, “ben parlante e pieno di piacevoli motti”, come si viene a sapere da alcuni personaggi, soprattutto del Decameron, identificabili in lui, che fra l’altro si dice anche “bello”.
L’attività prevalente, cui dedicò tutto se stesso e la maggior parte del suo tempo, fu quella di scrivere, anche nelle lunghe e fredde notti invernali. Quando a poco a poco i filologi avranno imparato a riconoscere il suo stile e le caratteristiche particolari del suo lessico e del suo pensiero, da tante opere solo apparentemente diverse affiorerà in tutta la sua grandezza un uomo che fece i suoi primi passi come giullare colto viaggiando per tutta l’Italia, forse la Spagna, certo la Francia, visse esule in tanti luoghi diversi della penisola, anche ospite di monasteri come frate minore, si guadagnò da vivere forse come insegnante e certo come notaio, affinò la sua preparazione culturale già notevole (sapeva anche l’ebraico) che il padre Angioliero gli aveva fatto impartire in una Siena non ancora sede universitaria, fino alla laurea in giurisprudenza, forse ottenuta a Bologna. Il soggiorno in Francia, cui dobbiamo la composizione del Fiore, e la frequentazione di ambienti universitari di alto livello valsero a conferirgli un’abilità dialettica a tutta prova, che risulterà evidente in opere come il Convivio e il De Monarchia, ma che predomina anche in una canzone splendida e ardua come Donna me  prega, presente nelle rime cosiddette del Cavalcanti, che sarà anche stato il “primo amico” di Dante, ma che pur ricco, potente e ragguardevole nella Firenze del tempo, sotto il profilo intellettuale e poetico, di fronte a Cecco  non poteva che fare una figura un po’ magra, palesando i suoi limiti.
Ma torniamo ai nostri poeti siciliani. Uno di cui si è più fantasticato è Cielo d’Alcamo: il nome stesso forse altro non nasce che dalla fantasia di un filologo romano del ‘500. Se si legge il suo Contrasto, di una modernità eccezionale, tenuta presente la realtà siciliana del tempo, non si può fare a meno di pensare a composizioni simili risalenti a Cecco. Di quest’ultimo il contrasto in poesia fra due amanti è una vera e propria specialità, a cominciare da certe composizioni in cui è più o meno evidente la figura di Becchina, fino a quelle dello stesso tipo, giunte fino a noi e attribuite a vari pseudonimi, tutti riconducibili senza tanto sforzo al poeta senese.
Il Contrasto di Cielo è un pezzo unico perché l’autore, consapevole di comporre un falso, per renderlo maggiormente credibile mira a ancorarlo alla realtà della regione in cui è ambientato, e ci riesce in modo egregio, sia che, per essere vissuto in Sicilia, ne conoscesse a fondo tante cose, sia che, più che  prendere spunto da fonti scritte, si rifacesse a qualche composizione giullaresca in dialetto siciliano. Su questo testo attribuito a Cielo d’Alcamo ricordo di aver letto pochi anni fa su Studi e problemi di critica testuale un articolo interessante di Cono A.Mangieri. Non tutto in esso mi parve accettabile, ma l’autore attraverso l’esame di una parola come “patrino” risaliva al  tema del patarinismo, che io per primo ho riconosciuto avere in Cecco un posto non indifferente.
Naturalmente un genere come quello del “contrasto” non l’ha inventato l’Angiolieri: alla base c’è l’imitazione della lirica provenzale, ma quello che risulta per me più interessante è il dialetto intrecciato di alcune parole senza dubbio siciliane, non  tuttavia privo di gallicismi e particolarità lessicali di tipo centro-meridionale, fra cui fanno spicco senesismi propri di Cecco, come “eo”, “deo”, “perfonno”, “desdotto”, insieme a altre espressioni tipicamente sue. Per esempio, “eo”, che vale “io”, si trova in tante composizioni dei cosiddetti siciliani (oltre 150 occorrenze), ma  anche in Guittone e in altri pseudonimi di Cecco come Panuccio del Bagno (7,44) e Dante da Maiano (28,13). Non parliamo di “Deo”, che Cecco imperterrito fa usare nelle poesie e nelle prose a tanti suoi prestanome (fra l’altro mette nome Deo anche al suo primogenito),  mentre si è servito un po’ meno del termine “abento”, presente qui nel Contrasto, in Guido delle Colonne (2,63), in Federico II (2,47), ma anche nei suoi Sonetti  (2,3;2,4) e in una canzone del suo alter ego Chiaro Davanzati (11,47). A parte l’uso di “anche” con il significato di “mai”, come per esempio talvolta nel Fiore,  e l’espressione angiolieresca del v.6 follia lo ti fa fare, soprattutto le parole “perfonno” e “disdotto” sono significative per capirne meglio l’autore: la prima è il senesissimo “perfondo”, presente nell’angiolieresco Tristano riccardiano (cap.15,2) e  negli pseudonimi Guittone (36,27), Monte Andrea (39,5;70,10), Rustico (8,11), e frequente nelle commedie popolari senesi del ‘500 con il significato di “inferno”, la seconda si ritrova nel Fiore (147,13) e in Chiaro Davanzati (23,12) oltre che nel Ramusio (15 occorrenze), scrittore quest’ultimo un po’ misterioso, il cui stile ricorda molto quello di Cecco, ma che non può essere Cecco per motivi anagrafici; questa stessa parola  nella forma “disdutto” appare in Giacomo da Lentini (11,35), Stefano Protonotaro (39) e Guittone (canz.33,8).
Tutto questo è fortemente indicativo: nella letteratura italiana delle origini si è fatta troppa confusione e si danno per scontate molte cose che non stanno in piedi. Sarebbe opportuno che prima di porre al lavoro tanta gente con edizioni che di nuovo hanno solo il nome, si cercasse con umiltà di mettere innanzi tutto un po’ d’ordine e di logica laddove l’ordine e la logica, nonostante gli studi di filologi vecchi e nuovi, sembrano essere del tutto assenti. Se facendo ciò verrà fuori che le conclusioni di tanti saggi, finora encomiati  all’unanimità, sono inconsistenti, pazienza. A questo punto bisogna che si prenda una decisione, anche scomoda: la filologia romanza italiana non può fare progressi veri e apprezzabili, se non si comincerà tutto daccapo ripartendo da basi meno traballanti e insicure.
Sarà proprio un caso che, se ho ragione, mi sia accorto io, senese, che senesismi evidenti sono presenti nel Milione, nel Novellino, nel Fiore, nei Fioretti di san Francesco e nelle Laude di Iacopone, tanto per fare qualche esempio? Perché non se ne accorsero filologi di valore come l’Ageno e il Contini? Ho fatto i primi nomi che mi sono venuti in mente.  Ne avrei potuti fare altri, ma rimaniamo su questi due: l’Ageno nello sforzo di fissare il testo critico delle Laude si trovò davanti a difficoltà molto forti, da cui  a mala pena riuscì a districarsi e non sempre in modo soddisfacente. Il Contini non ne incontrò di meno durante il lavoro speso sul testo del Fiore, tenacemente convinto di avere a che fare con  uno scritto di  Dante. Se entrambi si fossero accorti che quei testi poggiavano su un evidente substrato idiomatico senese, certamente i loro lavori sarebbero riusciti molto più pregevoli e duraturi.
Per concludere intendo annotare qualcosa sulla recensione di Stefano Carrai , apparsa in Lettere Italiane, LXI (2009) n°3, pp.466-475, alla recente edizione (2008) dei tre volumi mondadoriani sulla Scuola siciliana (I: Giacomo da Lentini; II: Poeti della corte di Federico II; III: Poeti siculo-toscani).
Una precisazione: nella settima novella della decima giornata del Decameron il Boccaccio, che per me è Cecco, non immagina  la ballata Muoviti, Amore, e vattene a Messere  scritta da Minuccio d’Arezzo, bensì da “Mico da Siena”. Minuccio si limitò a cantarla davanti a Pietro III d’Aragona. Mico da Siena viene menzionato nel De vulgari (I, XIII,1) come Minum Mocatum Senensem, di cui il codice Vat. lat. 3793 ci ha conservato una canzone.
Annota il Quaglio nella sua edizione del Decameron (n.2, p.878): “Di certo la fantasia del Boccaccio travestì poeticamente i dati, storici e naturali”. Fantasia o no, per me Cecco-Boccaccio è informato sui fatti meglio di tutti, perché è suo anche il De vulgari, da lui attribuito a Dante per i motivi che non starò a ripetere un’altra volta. Ma il fatto che la maggior parte della poesia siciliana si trovi nel Vat.lat.3793, un codice meraviglioso, uno dei più preziosi per la letteratura italiana delle origini, la dice lunga. Lì Cecco trascrisse, o fece trascrivere, tanti suoi capolavori. A mio parere il Panvini, forse anche un po’ inconsapevolmente,  non sbagliò a accogliere quella ballata nella sua silloge.
Sono d’accordo con Stefano Carrai che una distinzione fra siculo-toscani e tosco-siculi è speciosa. Maestro Francesco e Maestro Torrigiano hanno gli stessi diritti di Maestro Rinuccino e Compiuta Donzella a comparire in quella silloge. Per me la soluzione è semplice: l’autore di tutte le composizioni presenti nei tre volumi mondadoriani è Cecco, che incarna in sé, bisessuale, anche la “Signorina istruita a fondo”, sulla quale da secoli si vanno architettando le ipotesi più varie e più strane. Le ultime sono state quelle di un filologo romanzo americano (Justin Steinberg), al quale non sono bastate trenta pagine sul Giornale storico della letteratura italiana per risolvere l’arcano. Che il senese avesse l’inclinazione e la passione per lingue e dialetti, si capisce bene dalla sua formazione culturale e dai suoi esordi letterari. Significativo è anche il suo sonetto, a torto classificato fra quelli dubbi, Pelle chiabelle di Dio, no ci arvai, ma soprattutto un suo grande capolavoro, il De vulgari, che Dante non può avere scritto, perché non è suo lo stile moderno e inconfondibile che si riesce a cogliere sotto la veste latina, eppoi perché lì il sommo poeta viene irriso spesso e volentieri. Non mi sento di negare che il linguaggio  fiorentino della Commedia sia un’opera d’arte grande e splendida, ma mi si lasci dire che talvolta ha un colorito un po’ arcaico, mentre Cecco, capace di spaziare sugli argomenti più disparati, in poesia e in prosa, in volgare e in latino, ha un caleidoscopio di mezzi espressivi di una ricchezza e di una modernità infinita, seppure talvolta meno linguisticamente regolari a causa di certi senesismi da cui non seppe o non volle mai liberarsi, forse anche per facilitare le cose a chi si fosse messo in cerca del bandolo della matassa.
Un posto a parte merita Ruggeri Apugliese, che viene accolto nel secondo volume fra i poeti della corte di Federico II ma con la sola canzone Umile sono ed orgoglioso, compresa nel Vat.lat 3793, mentre risultano esclusi gli altri quattro testi tramandatici da codici più tardi. Gabbriella Piccinni, citata dal Carrai, ha rivisto tutta la documentazione d’archivio relativa a questo poeta che viene detto “dominus” e “doctor legum”, ma che in un serventese si definisce  “zollare”, cioè giullare. La Piccinni è stata diligente nel raccogliere i documenti relativi a Ruggeri, ma a mio parere ne ha tratto deduzioni sulle quali non sono d’accordo.
L’Apugliese non può essere un “intellettuale ghibellino”; era “doctor legum”, ma se si legge bene la sua Genti, intendete bene questo sermone,  si arriva a capire dall’idioma tipicamente senese e  proprio di Cecco (“solo nato”, “bretto”, “bistar toti”, “Deo”),  che qui l’Angiolieri, “novelliero e dicitore”, celandosi sotto le vesti giullaresche di Ruggeri,  descrive con pennellate potenti e tono  commosso e drammatico  il processo cui venne sottoposto a Siena dall’autorità religiosa per l’accusa di patarinismo. Stando alla mia interpretazione di alcuni sonetti del Fiore, in quell’accusa di eresia è probabile che abbia avuto una parte di rilievo il suo nemico Dante. Peccato che il “sermone” ci sia giunto mutilo, ma non è certo un caso: chissà che cosa avrà tirato fuori Cecco. Si può solo arguire che le accuse, piuttosto scottanti, siano state censurate. Si sa solo come la cosa andò a finire: fra il 1212 e il 1213 fu certamente condannato come eretico, non sappiamo a quale pena. Forse fu mandato in esilio (si veda la mia Introduzione al Fiore, pp.26-27), mentre in un atto pubblico del Consiglio della Campana (febbraio del 1313) viene dato per già morto. Ma questo è poco credibile, altrimenti non avremmo tanti suoi  capolavori, uno dei quali ha il titolo di Decameron. Forse i governanti senesi, risparmiando la pena del rogo a un nipote del nobile guelfo Angioliero Solafica, banchiere del papa Gregorio XI, condannandolo a esilio perpetuo fanno in modo che venga dato per morto, forse anche per liberare definitivamente la famiglia dalla sua presenza poco gradita e soprattutto per sgravarla da eventuali  responsabilità connesse alla  condotta talvolta poco assennata del proprio congiunto.
Non pretendo che chi legge la pensi come me, ma ritengo che da allora Cecco sia vissuto in altri luoghi d’Italia e  all’estero nascondendosi sotto molte false identità.
Anche la qualifica di giullare non deve fare meraviglia: talvolta il senese parla di sé come di un giullare colto, non certo un buffone di quelli che improvvisavano spettacoli nelle piazze e nelle corti dei signori, ma un “uomo di corte” (Dec. I,8), simile al poeta Ugo d’Orleans, soprannominato Primasso, di cui si parla nella stessa novella del Decameron.
Insomma, per me che Ruggeri Apugliese sia stato messo fra i poeti del secondo o del terzo volume ha poca importanza: sempre Cecco rimane. È  però necessario che in una raccolta futura trovino posto tutti e cinque i componimenti che vanno sotto il suo nome.