Se non casti, cauti.

Nel 2013, in un articolo intitolato “Il saggio recente di Francisco Rico sui rapporti fra Boccaccio e Petrarca: formulazione di nuove congetture rivoluzionarie sulla questione”, tuttora presente nel mio sito internet, www.menottistanghellini.com, sostenni che merito del filologo spagnolo era aver messo in luce il quadro dei rapporti fra i due amici Petrarca e Boccaccio, non idillico e tinto di rosa come era apparso, per esempio, dagli studi precedenti di Giuseppe Billanovich e Vittore Branca.
Quello che per me non risultava accettabile nelle conclusioni di Rico era il contegno dimesso, arrendevole e quasi devoto del ‘novelliere’ verso l’amico. Sotto l’apparente atteggiamento ossequioso e pieno di ammirazione, testimoniato da aggettivi come ‘illustris’, ‘venerabilis’, ‘sublimis’, ero riuscito a intuire che chi finisce per avere la peggio fra i due amici è il Petrarca, che tratta l’altro come un servitore e lo considera come un fratello meno dotato, intellettualmente inferiore a lui, ma non si accorge che è l’altro a condurre le danze in base a un piano freddo e ben calcolato. Chissà quanti codici ‘autentici’ della latinità quel ‘fratello meno dotato’ gli avrà fatti inserire come doni negli scaffali della sua biblioteca, per avere la certezza che quei falsi costati tanto lavoro non sarebbero andati perduti e per di più avrebbero ricevuto una valida autenticazione.
Il Petrarca non arrivò a capire che dietro quel donatore, quel curioso e goffo uomo grasso, si celava Omero redivivo, quello stesso che in un’altra occasione… deve averlo guidato a Verona a scoprire il codice pseudo-ciceroniano con la corrispondenza di Attico, tanto da accrescere in lui l’illusione di essere un grande intenditore della letteratura latina, dal fiuto infallibile… A conti fatti, il Petrarca si valutava troppo, e fino a oggi continua a essere sopravvalutato, nonostante il ‘Canzoniere’, ma quando si capirà che anche il suo capolavoro in volgare ha molti debiti in sospeso con Cecco e con i suoi numerosi pseudonimi, forse si cominceranno a spiegare, almeno in parte, molte cose, fra cui anche l’atteggiamento elusivo dell’aretino nei confronti dell’amico.
Detto per inciso, sono convinto che qualche volta il senese si sia fatto pagare profumatamente qualche codice dall’amico umanista, che si serviva di vari copisti e era ben provvisto di soldi. Magari anche per non fargli venire in mente qualche sospetto di troppo.
Altri potranno meglio mettere in chiaro la questione. A me è bastato avere scoperto che tutti i codici in latino appassionatamente letti, studiati e annotati dal Petrarca altro non sono che falsi splendidi composti da Cecco-Boccaccio. Se per ora nessuno ci vuole credere, a me importa fino a un certo punto.
Tempo indietro informai anche Francisco Rico di tutto questo. Non mi ha degnato di una risposta. Chi è troppo sicuro di sé, fidando soprattutto nell’appoggio totale e incondizionato della consorteria accademica, per me non è degno di fare il filologo. Rico avrà letto anche Platone, ma ha capito molto poco dell’importanza attribuita dal filosofo al dubbio socratico. Una scienza umanistica presa troppo sul serio per interessi vari è destinata a veder crollare tante impalcature pericolanti.
Premesso tutto questo, importante perché ci si renda meglio conto come a mio parere stia la faccenda, ora intendo occuparmi di un capitolo, il terzo, che nel saggio di Francisco Rico porta il titolo Se non casti, cauti.
Si legge nella traduzione di un passo del De vita et moribus domini Francisci Petracchi de Florentia secundum Iohannem Bochacii de Certaldo: “Cristiano scrupolosissimo, tanto che a stento potrebbe credersi se non per esperienza e conoscenza. Solo dalla libidine è stato, non dico del tutto vinto, ma piuttosto alquanto molestato; però se a volte gli accade di soccombervi, almeno egli ha saputo – secondo il precetto dell’Apostolo – fare cautamente quanto non ha potuto castamente”.
Chi voglia essere informato ampiamente sulla questione non ha che da leggere con attenzione il capitolo di Rico, esaminando con un po’ di cautela le conclusioni finali, per me discutibili. Mi limito a riassumerlo il più brevemente possibile.
Nella Bibbia “questa presunta citazione di san Paolo” non c’è. Nella Lettera agli Efesini si legge: Videte itaque, fratres, quomodo caute ambuletis, non quasi insipientes sed ut sapientes.
Insomma l’Apostolo consiglierebbe: «State ben attenti, fratelli, a muovervi con cautela, comportandovi da persone avvedute». Nel passo il verbo ambulare mi sembra che contenga un evidente significato sessuale.
L’avverbio caute richiama alla mente le espressioni castissimi cautissimique dell’autore latino Aulo Gellio (Noctes Atticae, II 28 2) e Si non caste, saltem caute di Bernardo Di Chiaravalle. Quest’ultimo si riferisce ai peccati del clero, non solo sessuali. Nel bestiario di Aberdeen (intorno al 1200) si insegna che la tortora e il passero sono esempi ut vivas caste et ambules caute.
Nel sinodo di Magonza del 1049 l’arcivescovo Adalberto, esortando il clero alla continenza, arriva a dire che, se proprio non riesca a dominarsi, si comporti secundum illud quod dicitur: “Si non caste, saltem caute”. Adalberto aveva presenti certamente due brani paolini: l’Apostolo invita a preferire la verginità al celibato, ma “non si oppone a che si sposi” chi non riesca a resistere alle fiamme dei sensi: melius est enim nubere quam uri (I Corinzi, VII 2-9).
Tutto questo sembra testimoniare che il falso rimando all’Apostolo si propagò con insistenza.
Salimbene da Parma riferisce di aver sentito più volte frati e secolari attribuire a torto a san Paolo il detto Et si non caste, tamen caute (Cronica, 1250, De commendatione castitatis). Lo stesso san Tommaso respingeva l’attribuzione apocrifa sostenendo che l’Apostolo con l’espressione Si non caste, saltem caute intendeva mettere in guardia contro gli uomini contrari alla castità.
Insomma, secondo Rico, per il Boccaccio Si non caste, tamen caute sarebbe stato un precetto autentico dell’Apostolo.
Aggiunge il filologo: “D’altronde Boccaccio, non già religioso e devoto, ma baciapile, conosceva male le Scritture, che cita col contagocce, ed era privo di un’accettabile formazione teologica, sia prima che dopo essere stato ordinato. Resta valida la sentenza di De Sanctis: «Regnano nel suo spirito, divinità, Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone, e non ci è Bibbia che tenga, e non ci è san Tommaso». L’apocrifa massima paolina circolava come genuina negli ambienti in cui si muoveva Boccaccio, ed egli l’accettò tale e quale, senza controlli”.
Rico sul cosiddetto Boccaccio ha capito forse molto meno del De Sanctis e non si può permettere di dare giudizi su chi ha tradotto e rielaborato, sotto lo pseudonimo di Gerolamo, le sacre Scritture, e per di più composto l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, le opere di Ovidio, Livio, Cicerone e Aulo Gellio (che fa pensare a Angiolieri, il cognome vero del cosiddetto Boccaccio).
Sempre di mano del senese è quanto, a dispetto delle datazioni paleografiche, ci rimane di Bernardo di Chiaravalle, dell’arcivescovo Adalberto, delle opere di san Tommaso e anche del bestiario di Aberdeen, in cui si legge che la tortora è animale che vive castamente, notizia un po’ strana che si ritrova, guarda caso, nel Tresor di Cecco-Brunetto Latini e in un sonetto molto bello di Cecco-Guinizzelli (n° 8).
Cecco-Boccaccio non era tanto sprovveduto da piazzare senza motivo l’adagio Nisi castus, saltem cautus nelle opere di tanti suoi pseudonimi. Lui la Bibbia e i Vangeli li conosceva bene come nessun altro, perché dentro ci aveva messo le mani piuttosto a lungo. Che poi l’amico Petrarca fosse lussurioso gli importava relativamente. Semmai gli importava molto di più classificare così l’ipocrita nemico Dante che, mentre aspirava a assurgere alla visione di Dio tramite la donna-angelo Beatrice, continuava a lasciarsi dominare da una passione segreta per le donne disponibili e le giovanissime.
Cecco mirava soprattutto a colpire i lettori con una sventagliata di adagi, espressioni e particolari strani disseminati qua e là negli scritti dei suoi pseudonimi, perché finalmente qualcuno avveduto potesse trovare la chiave per accedere al suo complesso piano letterario spurio.
Pensa di esserci riuscito, dopo oltre sei secoli, un aspirante filologo attempato come me, che fra l’altro conosce abbastanza bene il senese antico, per me la chiave d’accesso alle varie questioni accennate sopra, ma che per ora si è solo guadagnata la nomea di matto da parte degli specialisti, incapaci  di distinguere lo stile e i temi di Cecco da quelli di Dante, che mirano per motivi non degni della scienza e della filologia a far rimanere immutato l’assetto attuale delle letterature europee che va da Omero fino al cosiddetto Boccaccio. Alla fine potrebbe anche darsi che avessero ragione, ma i sospetti più forti vengono fuori proprio dal fatto che si rifiutano di avviare una discussione su un problema come questo che è vitale per la cultura europea che conta di più.