Raimondo Lullo.

A breve distanza l’uno dall’altro sono comparsi sul Domenicale del “Sole 24 Ore” due articoli relativi a Raimondo Lullo, il primo del 23 aprile a firma di Maria Bettetini  (Beato tra le ruote) e il secondo del 19 giugno 2016 a firma di Gianfranco Ravasi  (Raimondo Lullo ha avuto Eco).
Maria Bettetini ha recensito “il primo di tre volumi di magistrale fattura, in cui Pere Villalba i Varneda, lullista di fama, ha trascritto la vita di Raimondo, inserendo documenti, immagini e brani o sunti delle opere, tutto in ordine cronologico, tutto in catalano…”.
L’edizione è nata grazie all’appoggio economico di Elsa Peretti, disegnatrice per Tiffany. “Il volume contiene anche un dvd italiano (con sottotitoli in molte altre lingue), in cui i professori Tessari (Padova) e Rigobon (Venezia) ricostruiscono le vicende della vita e delle opere di Lullo”.
Nel prossimo novembre, dal 24 al 27 2016, si terrà a Barcellona un Congresso Internazionale con al centro Raimondo Lullo, autore molto letto, della cui fortuna e importanza di scrittore in catalano, latino e arabo ci si può rendere facilmente conto dalle frequenti edizioni delle sue opere. Non è che io intenda occuparmene per estendere i miei già troppo ampi interessi letterari, visto che a Lullo vengono attribuite oltre duecentocinquanta opere, comprese quelle ritenute spurie, che forse non sono più spurie di tutte le altre, ma per la semplice ragione che mi è bastato leggere un breve sunto biografico relativo all’autore nativo di Maiorca perché si siano subito affacciate alla mia mente forti analogie con la vita, gli interessi e parte delle opere di Cecco Angiolieri, il senese di cui mi sto occupando da una decina di anni, nel quale ho scoperto un falsario sulla cui attività sterminata finora nessuno ha avuto il minimo sospetto.
Di un altro autore spagnolo mi ero già occupato nel saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa (Aracne 2011, pp. 227-230), Isidoro di Siviglia, un santo venerato anche per la sua grande cultura in Spagna e fuori: una sua opera, le Etimologie, è una specie di mastodontica enciclopedia di oltre 1800 pagine, attraverso la quale lo scrittore ha mirato “a raccogliere le conoscenze culturali dell’età pagana e di quella cristiana, ma soprattutto a dare una spiegazione della realtà attraverso il mondo infinito dei vocaboli”. Si tratta di un mosaico immenso che si rifà a Virgilio, Servio, Varrone, Lucano,  Plinio il Vecchio, Lattanzio, Gerolamo, Agostino e a molti altri autori.
Salvo rare eccezioni, manca la menzione esplicita della fonte cui di volta in volta si rifà Isidoro, che a me è finito per apparire uno pseudonimo di Cecco. Ne ho trovato la prova più evidente in un trattato cosmologico composto da 48 capitoli e 5 appendici, con il titolo di De rerum natura, lo stesso del capolavoro di Lucrezio, nel quale viene spiegata la dottrina fisico-atomica epicurea.
Cecco-Isidoro nel suo De rerum natura (ma in effetti tutte e due le opere con lo stesso titolo altro non sarebbero a mio parere che suoi falsi) mirerebbe polemicamente a dimostrare l’inconsistenza delle teorie epicuree, alla luce della propria teoria sull’essenza del mondo reale, facendo ricorso a una doppia verità in cui la realtà divina occupa il primo posto assoluto: il fatto è che Cecco non si è mai contentato di essere un poeta e un romanziere di primo piano (anche Lullo si rivela romanziere nell’opera intitolata Llibre d’Evast e Blanquerna), ma la sua passione per la cultura enciclopedica e il suo misticismo cristiano, venato di idee eretiche, unito a un forte interesse per le religioni maggiori, l’hanno portato a mescolare troppo il divino con il terreno.
Francesco Trisoglio nell’introduzione alla sua edizione di quest’opera (Roma 2001) sostiene che Isidoro “…non espone idee o dibatte quesiti, raccoglie solo notizie; è privo di proposte e dimostrazioni”. Lo scritto isidoriano darebbe insomma l’impressione, più che di un trattato, “di una scaffalatura che esponga una serie di oggetti in una fila ordinata più dagli argomenti che da un progetto” (p. 16).
Se al santo vescovo Isidoro, venerato in Spagna, vengono attribuiti, esclusi apocrifi e scritti dubbi, una ventina di opere che comprendono anche lettere e 27 poesie brevi in distici elegiaci, da parte sua il mistico, filosofo, teologo, romanziere e poeta Raimondo Lullo risulterebbe autore di oltre duecento opere di vario genere.
Mi pare lecito che si cominci a dubitare dell’autenticità di queste. Così, nel cuore del Duecento ci troviamo di fronte a un autore che fa pensare alla straordinaria produzione letteraria di Cecco. E se fosse anche lui un ennesimo pseudonimo del senese come il vescovo Isidoro?
Tutto questo non esclude certo che siano esistiti a Siviglia un vescovo chiamato Isidoro e a Palma di Maiorca un mistico, filosofo e poeta chiamato Raimondo Lullo, ma Cecco con la sua abilità di falsario avrebbe avuto buon gioco nell’attribuire loro i propri falsi per la perdita delle opere autentiche, spiegabile con le vicissitudini dei secoli bui riguardo a quelle del primo e, quanto al secondo, forse perché il maiorchino avrebbe lasciato poco o niente di scritto oppure il senese volle inserire alcuni suoi falsi fra gli scritti originali.
Sarà compito di filologi specialisti vedere se fra quelle a noi note si possa distinguere qualche opera davvero autentica, sia dell’uno che dell’altro.
Senza dubbio per Cecco fu più facile lavorare su Raimondo Lullo, un suo quasi contemporaneo, che su sant’Isidoro, vissuto sei secoli prima, ma a uno capace di dare nuova vita ai poemi di Omero e di Virgilio, con tutte le difficoltà che falsi del genere comportano, la cosa non dovette dare troppo pensiero. Solo che, se avessi ragione in tutto questo, dovrebbero essere messe in discussione anche le capacità di tanti paleografi del passato e del presente.
Credo che non ci vorrebbe molto a analizzare meglio le opere di Lullo: se in tutte o in alcune di esse si riscontrassero forti analogie con la grafia dei manoscritti autografi del Boccaccio, per esempio, a mio parere alter ego di Cecco, il problema sarebbe risolto.
Perché non fare qualche ricerca approfondita a tale riguardo? Se poi i sospetti cadranno nel nulla, tanto meglio per i fedeli di sant’Isidoro e per i patiti delle opere mistico-alchemiche del maiorchino.
Vediamo qualche dato biografico interessante su quest’ultimo. Le date della nascita e della morte di Raimondo oscillano con qualche disparità e incertezza fra il 1232 e il 1316. Nato da nobile famiglia a Maiorca, dove non è sicuro che sia morto, dopo una crisi religiosa lascia la moglie e i due figli per dedicarsi alla causa della conversione degli infedeli, fonda con l’appoggio del re Giacomo II un collegio missionario, a Roma tenta invano di far realizzare al papa una nuova crociata, a Parigi diviene magister artium e a Montpellier scrive l’ars compendiosa inveniendi veritatem (1271). Presi gli ordini minori francescani, si dedica all’opera enciclopedica Arbre de ciència (1296), a Parigi scrive l’Arbre de filosofia d’amor (1298) e combatte l’averroismo che sosteneva un distacco netto fra la dottrina aristotelica e i principi delle verità di fede.
Passa poi in Africa, dove scrive in arabo la Disputatio Raymundi christiani et Hamar sarraceni, ma  incarcerato per sei mesi viene poi espulso.
Al Concilio di Vienne ottiene che in varie università si insegni l’ebraico, il caldaico e l’arabo per una migliore preparazione di nuovi missionari. Egli stesso, dopo qualche esitazione, tenta una missione a Tunisi, ma qui le notizie su di lui si interrompono: una tradizione pia parla del suo martirio, per il quale la Chiesa lo nominò Beato.
Soprattutto da mettere in evidenza in lui l’idea di unire le fedi ebraica, cristiana e musulmana tramite una metafisica che individui nella struttura della realtà gli elementi semplici e primi, cabalisticamente espressi tramite lettere e figure geometriche, capaci di portare a cogliere la razionalità della fede e della perfezione divina.
Confluiscono in questa ars, tipica di Raimondo, dottrine presenti nel pensiero di sant’Agostino e sant’Anselmo, anche sotto i quali tuttavia, a mio parere, si celerebbe il falsario Cecco. Importante altresì mettere in evidenza che nel maiorchino l’amore è idealizzato, come nella poetica trobadorica e stilnovistica, quale tramite per l’innalzamento della mente umana fino a Dio.
Altre notizie importanti al riguardo si possono leggere nelle recensioni di Maria Bettetini e di Gianfranco Ravasi, il quale ha segnalato in Umberto Eco un appassionato di Raimondo Lullo: in lui “l’attrazione nasceva proprio dalla versatilità inarrestabile di questo scrittore catalano dotato di una mente geniale e insaziabile, dalla sua apertura al dialogo interreligioso, soprattutto con l’Islam, dalla sua sfrenata creatività e dall’inquieta esistenza che lo aveva spinto persino ad abbandonare la sua famiglia, la sposa Bianca Picany e i due figli, tanto da essere denunciato per abbandono del tetto coniugale. Da quel momento la sua vita fu un itinerario incessante: se si prova a leggere la sua autobiografia, si è colti da capogiro seguendo la mappa dei suoi viaggi da Maiorca a Parigi, da Montpellier a Roma, da Genova a Tunisi, da Napoli a Cipro, dall’Algeria a Pisa, da Vienna a Messina e così via, in una rete reiterata di arrivi e partenze”.
Anche la vita di Cecco altro non appare essere che un intenso viaggiare attraverso l’Europa fino all’ Africa del nord e al Medio Oriente. La stessa città francese di Montpellier è legata a un periodo della vita del senese, che proprio lì deve aver lavorato a una sua opera importante come Il Fiore, attribuita finora con qualche dubbio a Dante. Non può essere solo un caso che il codice unico dell’opera sia conservato proprio a Montpellier. Perfino nell’ultima parte della sua vita, quando si celò dietro lo pseudonimo di Giovanni Boccaccio, non solo furono frequenti i suoi spostamenti fra Certaldo e Firenze, ma anche i viaggi nell’Italia del nord per tenere i collegamenti con l’amico Petrarca, che nel piano letterario di Cecco il falsario costituì una pedina importante, vista la fama europea del poeta umanista.
Anche gli anni giovanili di Raimondo, come quelli di Cecco, sono contraddistinti da eccessi di ogni genere e dall’abbandono forzato della famiglia, moglie e cinque figli, cui lasciò i propri debiti. Per lui un documento pubblico senese parla di morte avvenuta intorno al 1313.
Ho sostenuto che, se fosse accolta come buona la notizia della sua morte, non sapremmo a chi attribuire una serie infinita di opere rilevanti per la nostra cultura europea: proprio in quello scorcio di tempo l’Angiolieri, tramite il suo pseudonimo Ruggeri Apugliese ci informa che a Siena l’autorità religiosa gli intentò un processo sotto accusa di eresia, per il quale fu condannato.
Non possiamo sapere di più perché la composizione attribuita a Ruggeri è mutila, ma Cecco deve essere riuscito a fuggire dalla propria città per evitare una condanna grave, forse capitale. Anche Cecco fu terziario francescano, come era stato l’odiato padre Angioliero, per lui solo un ipocrita, ma il poeta senese ricorre a questo espediente forse per celarsi meglio sotto quel saio e per sottrarsi al pericolo costante di una sentenza che, quasi spada di Damocle, sovrastò minacciosa tutta la sua vita, molto lunga in base a numerosi particolari.
Si spiega meglio così anche la sua forte propensione all’apprendimento delle lingue più importanti (non per niente è suo, non di Dante, un trattato come il De vulgari eloquentia) e la sua avversione a tutto ciò che è guerra e desiderio di potenza e ricchezza, avversione che si può intuire anche dalla lettura dei suoi poemi più grandi come l’Iliade e l’Eneide, dai quali emergono venature di morale cristiana evidenti. Il senese era fortemente convinto che una conoscenza più approfondita delle lingue europee avrebbe impedito contese, guerre e conflitti di vario genere e diffuso pace e unità nel continente. Se poi attraverso i suoi falsi in latino e in greco appare esaltare l’impero di Roma, questo è dovuto alla sua convinzione che la provvidenza divina abbia fatto leva sulle strutture residue di quell’impero, utili per estendere gli ideali di pace e di solidarietà propri del cristianesimo a tutto il mondo conosciuto.
Se Cecco afferma che il padre Angioliero gli fece studiare anche il difficile ebraico, Lullo si fa insegnare l’arabo da un servo saraceno, studia Aristotele dai pochi testi arabi del filosofo tornati in Europa, ma apprende anche il provenzale, il greco e il latino. Novello missionario, trova nelle lingue lo strumento più valido per attuare il suo piano volto all’unificazione delle tre religioni monoteistiche, ma a sue spese si dovette accorgere della difficoltà della cosa. Del resto anche Cecco, il francescano devoto Cecco, autore delle opere relative alla vita e alle opere del Poverello di Assisi, descrive in modo significativo il tentativo del santo che in Egitto vede naufragare i propri sforzi volti a catechizzare i musulmani.
Ho riconosciuto un altro suo pseudonimo nell’autore toscano anonimo dei Fioretti di san Francesco e anche in un altro come Tommaso da Celano, cui è attribuita la vita del santo intitolata Legenda prima. Inoltre ho finito per attribuire allo stesso Cecco un’opera di poesia sublime come il Cantico delle Creature, finora ritenuta del santo di Assisi: la poesia, soprattutto quella grande, non può nascere all’improvviso da un atto di fede, ma ha bisogno di un retroterra che la giustifichi e di esercizio continuo.
Nell’Angiolieri, oltre a una forte inclinazione per il misticismo, è presente la passione per l’alchimia che lo stesso Dante dovette scoprire in lui, se nel canto XXX dell’Inferno sfoga il suo odio intenso verso il suo maestro senese identificandolo nel personaggio di maestro Adamo, falsario non solo di parole, ma anche esperto nel battere fiorini d’oro per i conti Guidi, alterandone il titolo.
La mano di Cecco a mio parere traspare anche dal modo in cui si articolano le ultime fasi della vita di Raimondo Lullo, che dopo la sua vana missione in Africa sarebbe morto in mare sulla nave che da Tunisi lo riportava in patria dopo aver subito gravi violenze per aver cercato di convertire al cristianesimo i musulmani.