Pubblico anche sul mio sito internet quest’articolo decisivo per capire il piano letterario di Cecco Angiolieri. Fra l’altro, oltre ai problemi legati alle Sacre Scritture, da esso viene investita direttamente la questione omerica. Forse solo pochi lettori che qualche mese fa l’hanno letto ne hanno compreso l’importanza.
Su “Il Giornale” del 29 gennaio 2016 è apparso un articolo di Camillo Langone intitolato L’inquisitore riluttante. Alla (ri)scoperta di Pilato, nel quale viene recensito il saggio di Aldo Schiavone Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, edito da Einaudi.
Il recensore sostiene che dal libro di Schiavone non riusciamo a sapere molto di più sulla figura del governatore della Giudea che fece crocifiggere Cristo, talmente famoso da aver generato vocaboli («pilatesco») e locuzioni («lavarsene le mani»), eppure della sua vita sappiamo pochissimo…: l’enigma non viene sciolto, continua a essere tale. Perché lo storico napoletano non porta nuovi documenti bensì nuove interpretazioni e non potrebbe essere altrimenti, da quasi due millenni le fonti sono sempre le stesse, innanzitutto i Vangeli, poi i libri dello storico ebreo Flavio Giuseppe, quindi poche e poco utili righe di Filone, Tacito e Tertulliano. Ci sarebbero anche i Vangeli Apocrifi ma Schiavone non è Dan Brawn, uno studioso serio non presta attenzione a patacche tardive (anche del VI secolo, figuriamoci). La notizia vera più recente risale al 1961: il ritrovamento a Cesarea, sulla costa israeliana, di un’iscrizione smangiucchiata da cui si ricava, dato non proprio decisivo, che il prenome del governatore non era M. «Forse si chiamava Lucio o Tito». O forse no. È tutto un forse il libro di Schiavone ma anche in questo risiede il suo fascino innegabile. «Non sappiamo in che lingua Pilato e Gesù si parlassero». Si avanza l’ipotesi dell’aramaico, poi del greco, quindi dell’interprete. «Da dove Pilato venisse non sappiamo». Forse dal Sannio, forse da un’altra parte: tutte le località abruzzesi (Bisenti e Fontecchio), molisane (Isernia) e laziali (Scauri) che se ne disputano i natali potranno continuare tranquillamente a farlo, mancando sia le conferme che le smentite”.
Mi è sembrato opportuno trascrivere gli argomenti di Langone perché mettono bene in evidenza i buchi della storia. Confesso che mi attira poco il fascino di saggi che, pur composti da storici accreditati e famosi, si rifanno più che altro a ipotesi e a fonti insicure. Allora tanto vale leggere un romanzo di Dan Brawn, anche se lascia il tempo che trova.
Uno studioso di storia o viene fuori con qualcosa di veramente nuovo o si mette l’animo in pace. Il silenzio sarebbe preferibile. Ma la carriera degli specialisti e il commercio delle case editrici ne trarrebbero meno vantaggi. Il punto è qui.
Anche le altre considerazioni che ho tralasciato di citare, molto probabilmente dovute a Schiavone, relative al fatto che Pilato solo occasionalmente si sarebbe mosso da Cesarea, sapendo che gli ebrei gradivano poco la sua presenza e limitandosi a riscuotere le tasse e a evitare le rivolte, sono un po’ scontate. Che Pilato, per non inimicarsi gli ebrei e in particolare l’élite sadducea, religiosamente tiepida e politicamente disponibile, pur riluttante si piegò a ordinare la crocifissione di Cristo, è cosa non nuova e Schiavone non può fare altro che ricorrere alla sua abilità letteraria per avanzare la seguente ipotesi finale: Pilato capì che Gesù vedeva la sua morte sulla croce come l’unico esito possibile della sua predicazione e decise infine di accogliere l’inspiegabile volontà di chi gli stava innanzi.
Il recensore conclude così il suo articolo: Chi era dunque Ponzio Pilato? Forse un convertito.
Sa troppo di romanzesco che un governatore romano abbia pensato a convertirsi, mettendo a rischio la propria carriera, magari solo per aderire nel suo intimo a una religione monoteistica che i romani per motivi legati alle caratteristiche del proprio impero combatterono mettendola fuori legge.
In base all’ipotesi di Schiavone sembrerebbe quasi che il criptocristiano Pilato abbia fatto ricorso alla condanna di Gesù sulla croce proprio per venire incontro alla volontà irrevocabile del profeta di morire per poter dare “l’unico esito possibile” a una predicazione che correva il rischio di rimanere senza frutti evidenti.
Paolo Orosio racconta la favola che Ponzio Pilato, dopo aver ricevuto l’ordine di Caligola volto a profanare il tempio di Gerusalemme, “trafiggendosi di sua mano, cercò in una rapida morte un abbreviamento delle sue pene” (Le storie contro i pagani, VII 5, trad. G. Chiarini). Nel Vangelo di Matteo si legge che Giuda, preso dal rimorso, si sarebbe suicidato dopo aver gettato nel Tempio i trenta denari frutto del suo tradimento.
Sono convinto che Paolo Orosio o chi per lui per lui non ne sapesse molto più di me dei fatti storici relativi alla Palestina nel primo secolo dopo Cristo. Le sue Storie contro i pagani sono un falso risalente al tardo Medioevo: lo dimostrerò presto in base a certe caratteristiche del suo modo di narrare, tipico di uno scrittore che giocando con le parole desta nel lettore attento molti dubbi, ma ne già ho dato sufficienti anticipazioni in un capitolo del mio saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa (Aracne, 2011).
La Palestina dei tempi di Cristo ai romani non doveva apparire molto attraente. Un grande imperatore la definì la concimaia dell’impero. Cito a mente e spero di non sbagliare, ma questa non è un’affermazione da passare sotto silenzio, riflettendo forse una convinzione diffusa fra i romani, ammesso pure che l’opera in cui si legge risulti un ennesimo falso.
Di Paolo Orosio, storico molto discutibile e falsario evidente ho parlato a più riprese nei miei saggi, e non intendo entrare nel groviglio della tradizione testuale delle Scritture, sotto le quali si celano troppi interessi di vario genere. Nell’Ottocento pensatori avversi al cristianesimo come Engels, Feuerbach, Renan, Strauss e i loro epigoni si erano trovati di fronte a ostacoli che impedivano una chiara visuale. Ne riparlerò più a fondo quando quegli ostacoli saranno stati rimossi, del tutto o anche solo in parte.
Quegli ostacoli erano costituiti dalle testimonianze degli autori citati sopra come Flavio Giuseppe, Filone, Tacito e Tertulliano, sull’autenticità delle cui opere marxisti e positivisti come Engels, Feuerbach, Renan, Strauss non espressero alcun dubbio. Ho sostenuto in quello stesso articolo e in alcuni saggi che le opere in causa sarebbero falsi tardomedievali di Cecco: per di più anche il testo della Bibbia sarebbe costituito per un buon sessanta per cento da storie romanzate.
Ho scritto, sempre nel capitolo citato, che nelle pagine della Bibbia si distingue a tratti la stessa mano dell’autore dell’Iliade e dell’Odissea: … (l’episodio di David e Golia fa pensare a quello di Odìsseo e del Ciclope), con stragi, duelli, storie d’amore non esenti da azioni delittuose (David, Abigail e Uria), misoginia (Sansone e Dalila) e incesti (Amnon, figlio di David, e la sorellastra Tamar), eccessive crudeltà in cui cade chi, semplice pastore, si lascia prendere la mano dal potere e dalla ricchezza (David).
Sull’Apocalisse di san Giovanni che conclude la Bibbia la Chiesa stessa ha nutrito molti dubbi, se non altro perché il codice unico che ce l’ha tramandata risale al XIV secolo. Un vuoto di parecchi secoli nella tradizione del testo dovrebbe essere sufficiente a far togliere dalla Bibbia quell’opera, geniale e attraente quanto si voglia. La Bibbia si legge volentieri come un grande romanzo, ma proprio di certe parti romanzate la Chiesa avrebbe avuto l’obbligo di diffidare.
Se si leggono le sacre Scritture tenendo presenti i problemi di fondo che per tutta la vita animarono le opere del patarino-francescano senese, si finisce per capire che proprio lui è il padre del comunismo platonico, intollerante dell’eccesso di potenza e di ricchezza che rende difficile l’esistenza di tanti esseri umani posti ai margini della società. Questo ci rende maggiormente comprensibile la figura di Cristo, la cui personalità risulta molto sfaccettata e complessa, come complessa e sfaccettata era quella di Cecco.
Il senese, senza dubbio un falsario eccezionale, forse commise qualche errore di troppo perché volle conferire ai suoi falsi autenticità mediante una serie di opere convergenti.
Faccio l’esempio di Lucrezio, di Platone e di Dante, ma se ne potrebbero portare altri. A mio parere Cecco non si contentò di comporre quel falso meraviglioso che è il De rerum natura, necessariamente lacunoso perché l’autore poteva arrivare solo in parte a ricreare la dottrina di Epicuro con quel poco che sapeva e con un abile lavoro di ricostruzione, ma si spinse oltre con le tre lettere attribuite al grande filosofo greco per avvicinarlo maggiormente a studiosi e lettori. Fece lo stesso con Platone per dare del filosofo un’immagine che ne legasse maggiormente il pensiero con i tentativi di attuazione delle sue idee e dei suoi ideali.
Quanto a Dante, che non per caso era stato molto restio a parlare di sé e di certi periodi della sua esistenza, il senese per dare un’autenticazione più stretta alle sue opere cosiddette minori, tutte propri falsi, gli attribuì una serie di lettere abilmente confezionate, ma poco credibili a cominciare dalla lingua latina in cui le aveva composte, visto anche che il sommo poeta con quella lingua non aveva grande familiarità, e Cecco lo sapeva bene perché era stato il suo vero maestro.
Con gli Apostoli si agì nello stesso modo. I quattro Vangeli a loro attribuiti potevano dare qualche sospetto di troppo. Possibile che due pescatori, un gabelliere e un medico, fossero tutti grandi e abili letterati, capaci di dare del loro Maestro e della parte più significativa della sua vita terrena una visione accortamente differenziata?
Si tenga presente, fra l’altro, che Cecco, l’enciclopedico Cecco, appassionato di prodigi, dei quali si legge nelle pagine di storici suoi pseudonimi come Livio e soprattutto Paolo Orosio, era dotato di approfondite nozioni di magia (anche Apuleio figura fra i suoi pseudonimi) e di arte medica.
A proposito di quest’ultima, se ho ragione, le opere più famose di medicina del mondo antico risalgono a lui, autore anche del giuramento di Ippocrate, in cui ho ipotizzato un altro suo falso (Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto…, Siena 2013, ilmiolibro.it, pp. 136-140).
Le Lettere e gli Atti degli Apostoli avrebbero contribuito a colmare tante lacune presenti nelle strutture del cristianesimo, successive alla crocifissione di Cristo. Quelle strutture apparivano poco consistenti per sostenere in modo duraturo il trionfo di una religione basata troppo sulla fede incondizionata dei devoti.
Gli stessi miracoli, verso cui Cecco si mostra tanto avverso quando per il loro tramite dalle autorità religiose si mira con fini di lucro e di potere a ravvivare la credulità dei fedeli, nei Vangeli vengono guardati con un atteggiamento ben diverso: al centro di quelli c’è la figura di Gesù Cristo, nel quale il senese ha immesso molto di sé e nel quale ha visto l’uomo nuovo in cui tutta l’umanità dovrà ritrovarsi attraverso la rifondazione di un ordine cosmico e individuale corrotto dal peccato… per la trasgressione di Eva. Il Cristo dovrà riportare l’umanità alla sua condizione originaria di purezza, cancellando la differenziazione dei sessi peccaminosi (si veda su “Le Antiche Dogane”, mar.-apr. 2016, il mio articolo intitolato Cecco, il personaggio principale della “Commedia”, figlia dell’odio). E siamo arrivati al gender.
Anche nelle opere numerose con al centro la figura di san Francesco, l’eroe di Cecco per il suo attaccamento verso i meno fortunati, i miracoli godono di questa condizione di privilegio, che per chi conosce bene il senese può essere compresa solo alla luce del suo amor verso i poveri e gli infelici, destinato a vincere omnia.
Passo a un altro personaggio che nella vita e nelle opere del falsario senese Cecco Angiolieri occupa un posto di rilievo, Leonzio Pilato, il cui nome allude apertamente a Ponzio Pilato, e nessuno finora ha compreso il valore di questa allusione.
Le sue vicende sono legate a episodi importanti delle vite del Boccaccio e del Petrarca che vanno dal 1358 al 1363: il Boccaccio scrisse che sarebbe stato calabrese, mentre lui sosteneva di essere tessalo e si dichiarava greco in Italia e italiano in Grecia, quasi volendo mantenere il segreto sulla sua nascita e sulla sua vita anteriore.
Sempre il Boccaccio nella Genealogia deorum gentilium scrisse la celebre frase che consegnò Leonzio Pilato all’immortalità: “… io sono stato il primo, fra i latini, che da Leonzio Pilato ho udito l’Iliade”.
L’uomo era di aspetto strano e un po’ repellente: aveva folti e lunghi capelli neri che gli coprivano la faccia, una barba fitta e incolta, un modo di parlare farfugliante e spesso oscuro. Teneva un comportamento rozzo, era insolente e scontroso, ma aveva un merito, quello di aver tradotto Omero, sebbene il Petrarca criticasse quella traduzione perché troppo letterale e priva di qualità poetiche. Leonzio avrebbe tradotto anche l’Ecuba di Euripide, i Mirabilia di Aristotele e una parte del Digesto di Giustiniano. Sono tutti particolari da tenere ben presenti.
Il Petrarca rimaneva molto perplesso davanti a quell’uomo dall’aria sinistra che spesso lo faceva arrabbiare, ma si guardava bene dal troncare ogni rapporto con lui, sentendosi attirato dalle sue promesse di altre opere risalenti a autori classici. Neanche l’amore di Leonzio per il poeta latino Terenzio lo convinceva troppo e si chiedeva stupito che cosa potesse avere in comune quel greco “tristissimo con quell’africano così ilare”.
Leonzio Pilato come maestro avrebbe avuto Barlaam, monaco calabrese e raffinato teologo che aveva insegnato il greco presso la curia papale di Avignone, dove per di più era stato seguito nelle sue lezioni dallo stesso Petrarca durante la seconda parte dell’anno 1347, vale a dire fino al novembre, quando il poeta lasciò la Provenza. Su Barlaam ci sarebbe molto altro da dire, ma non voglio allungare troppo questo mio scritto, tanto più che di lui ho parlato qua e là nei miei saggi.
La morte di Barlaam, avvenuta di lì a poco, fece sì che il poeta laureato interrompesse l’ apprendimento del greco, al punto che nel 1354 ammise la sua incapacità di comprendere il testo di un poema omerico ricevuto in dono per il tramite di un funzionario dell’imperatore bizantino.
Il culto del greco era connaturato alla civiltà latina. Lo ha sostenuto a ragione Emanuele Coccia nel suo saggio intitolato Il greco, la lingua fantasma dell’Occidente medievale, saggio che mi è stato di grande utilità per questo mio articolo. Coccia riporta anche il seguente passo, scritto dal Boccaccio nelle sue Genealogie, a mio parere molto importante per capire a fondo la faccenda: Io non sono certo l’unico a mescolare il greco alle cose latine: è un’antica consuetudine. Aprite se volete i libri di Cicerone, guardatevi gli scritti di Macrobio, date un’occhiata ai libri di Apuleio, e infine, per non citarne altri, sfogliate i testi di Massimo Ausonio: troverete spessissimo versi greci inseriti tra quelli latini. In questo io non faccio che seguire le loro orme.
Fra parentesi il nome dell’ultimo autore citato sarebbe Magno Ausonio, altro pseudonimo di Cecco, che qui, con l’alterazione in Massimo da Magno, allude a sé stesso definendosi l’autore “italiano” più grande di tutti. Di Ausonio ho parlato in un paio di pagine del mio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa, Aracne 2011, pp.182-184.
Cecco tramite le sue controfigure letterarie mira a mettere in luce la lingua greca, facendo intuire di conoscerla molto meglio di quanto abbia dato a intendere: a lui risale l’invenzione dei legami che avrebbero unito la cultura letteraria romana con quella greca, innegabili ma forse molto superiori a quelli effettivi, grazie per esempio a un suo pseudonimo come Cicerone.
Tuttavia, per non scoprirsi troppo, sotto le vesti di Giovanni Boccaccio fece di tutto pur di celare le proprie nozioni reali di quella lingua che era riuscito a dominare alla perfezione, trincerandosi dietro errori intenzionali facilmente avvertibili, presenti in alcuni titoli di sue opere impostate su temi della letteratura greca.
Torniamo a Leonzio Pilato. Nell’inverno del 1358-59 avrebbe incontrato per la prima volta il Petrarca e alla fine dell’estate del 1360 sarebbe giunto a Firenze, dove compare in una lista di professori negli anni 1360-62 come “maestro Leonpilato di Tessaglia, eletto per l’insegnamento della grammatica e della letteratura greca”. Avrebbero frequentato quelle strane lezioni il Boccaccio e forse, talvolta, anche il Petrarca, che ospitò Leonzio nella sua casa dopo avergli fatto assegnare, un po’ a fatica, uno stipendio pubblico dai dottori dello Studio fiorentino.
Il corso verteva di fatto sulla lettura e sulla spiegazione dell’Iliade di Omero, ma abbiamo già visto che il metodo era molto discutibile per il Petrarca, che nel 1363 ospitò di nuovo in casa sua Leonzio, stavolta a Venezia. Qui però le cose non andarono molto bene: frequenti erano le liti del poeta di Laura “con la gran bestiaccia”, che alla fine se ne andò contrariato e compì vari viaggi a Costantinopoli. Di ritorno da uno di essi, racconta il Boccaccio, durante una tempesta si sarebbe aggrappato all’albero maestro della nave come Ulisse nel naufragio fra Scilla e Cariddi narrato nell’Odissea, con la differenza che un fulmine avrebbe causato la sua morte. Cecco doveva avere una paura dannata dei fulmini, come si apprende anche dalla lettura dei falsi di un suo alter ego come Agostino.
Tutto questo mi è apparso come una specie di romanzo nel quale la mano di Cecco-Boccaccio è facilmente riconoscibile. O meglio, il falsario sembrerebbe aver ideato gran parte della vicenda con l’abilità di un uomo di teatro consumato. Si deve sempre tenere presente che il senese era un giullare colto, abile negli intrecci comici e drammatici, insieme Sofocle, Euripide, Aristofane, Plauto, e in questa occasione si sarebbe rivelato anche un grande attore e regista.
Talvolta mi è venuto il dubbio che con una serie di abili travestimenti Cecco si sia nascosto sotto le sembianze ispide e sgradevoli di quella semispecie di selvaggio ributtante per imporre all’attenzione del mondo civile una lingua fantasma come il greco antico e in particolar modo un autore come Omero, da lui reso familiare ai lettori colti mediante falsi che, tramite pseudonimi, in continuazione esaltano e mirano a reclamizzare il poeta sovrano e i suoi poemi.
Non sono certo in grado di ricostruire meglio la faccenda: tutto è nebuloso e incerto, ma sarei portato a pensare al colpo di genio di un grande letterato che con accortezza e abilità impareggiabili riuscì a attirare nella sua rete un altro grande e famoso letterato come il Petrarca, in cui l’avversione fisica verso il selvaggio Leonzio era soffocata dalla forte speranza di una propria gloria sempre maggiore, radicata in una serie di scoperte entusiasmanti che portavano dritte a un tesoro letterario arcano di cui quella semispecie di mago-stregone, indisponente e all’apparenza quasi ignaro delle proprie potenzialità culturali, sembrava possedere la chiave segreta.
In questo comportamento di Cecco-Boccaccio a mio parere si cela anche l’intento evidente di farsi gioco di un Petrarca che non lo stimò mai molto. Per il poeta laureato aretino quel letterato grasso, goffo e un po’ strano, pur autore del Decameron, opera del resto per lui discutibile (e questo non suona a gloria dell’aretino), era divenuto indispensabile perché, dotato di grande fiuto per i capolavori dell’antichità, era riuscito a stabilire una relazione preziosa con un personaggio che, pur repellente e spiacevole, di tante opere scomparse da secoli quasi per potere magico appariva conoscere esemplari scampati miracolosamente alle traversie dell’impero romano d’Occidente e d’Oriente, mostrandosi capace di riportarli alla luce. Talvolta Cecco appare come un giullare scanzonato e talaltra un grande romanziere e pensatore.
Tutto questo mi porta a pensare che, se ho ragione a nutrire tanti sospetti sulla faccenda e sui suoi protagonisti, il Petrarca nella trama ideata dall’amico Giovanni finì per fare la parte di Calandrino, nella quale si sono calati con entusiasmo e passione per secoli anche tanti ignari studiosi, in eterna venerazione per le opere del mondo classico.
Il piano fu ideato e attuato con perfezione geniale, tanto che ancora nessuno si è accorto delle troppe cose che in esso non stanno in piedi.
A questo punto viene da domandarsi che legame ci sia fra Ponzio Pilato e Leonzio Pilato. Cecco è solito legare le sue trame sottili con allusioni continue e rimandi alle questioni più rilevanti di cui si occupò nella sua lunga vita.
Qui con una chiara somiglianza nei nomi ha messo in collegamento fra loro il governatore romano famoso per aver ordinato la crocifissione di Cristo e un letterato molto strano che avrebbe fatto riemergere Omero dalla fitta nebbia dei tempi. Ha così legato insieme il funzionario romano, famoso per il ruolo rivestito nella morte di Cristo, da cui nacque una religione destinata a cambiare il mondo, all’uomo che per primo avrebbe fatto conoscere poemi immortali, rimasti sepolti sotto la polvere e l’oblio dei secoli.
Di fatto Cecco ha inteso lasciare un ennesimo segno evidente della propria azione di falsario sui testi basilari del cristianesimo e delle letterature dell’antichità, sperando che prima o poi qualcuno arrivasse a capire tutta la messa in scena e gli intenti di chi l’aveva ideata. Quegli intenti dovranno essere illuminati meglio perché ci si renda conto dei veri motivi che spinsero il senese a escogitare e attuare un piano di quella portata.
Limitarsi a dire che si sia comportato come un giullare dotato di cultura e di genio singolari non basta: c’è da tenere presente che dal 1313 in poi è un morto vivente che conduce la vita dell’esule con la spada di Damocle di un’accusa di eresia sempre pendente sopra di lui e che sotto l’ampia tonaca di terziario francescano trova per gran parte della sua lunghissima vita un riparo e un nascondiglio. Forse bisognerà cominciare a parlare di un piano letterario diabolico imperniato su un forte desiderio di vendetta. Postuma, s’intende, che lo avrebbe reso immortale, e forse anche odioso agli occhi di molti filologi conservatori.
Tuttavia non c’è dubbio che con l’attuazione di quel piano Cecco ha fatto sorgere questioni rilevanti che attendono da secoli di essere risolte, come quella omerica, quella dantesca e quella legata alla autenticità delle sacre Scritture, problemi ai quali penso di aver fatto compiere qualche passo avanti.
Spero di non fare la fine dei tanti che negli ultimi tre secoli, nel tentativo di risolvere la questione omerica, hanno fatto solo buchi nell’acqua: alcuni di essi sono annoverati tuttora fra i più grandi filologi del mondo.
Se ho ragione, risulterà che un italiano del tardo Medioevo per un suo piano letterario a lungo termine, volto a colmare le lacune venutesi a creare nella grande cultura europea da Omero fino al periodo altomedievale a causa delle invasioni dei barbari, ricreò una serie infinita di capolavori che costituiscono le glorie maggiori per Atene, Roma, Parigi, Londra, Berlino e Madrid.
Ogni volta che penso a Omero mi tornano in mente le numerose lezioni sulla questione omerica che negli anni Cinquanta ascoltai all’università di Firenze dal mio professore Alessandro Setti.
Di lingua omerica sentii parlare spesso anche il glottologo Giacomo Devoto, autore di un paio di manuali al riguardo. Quello che nelle sue lezioni mi colpì fu la fitta varietà soprattutto di certe forme verbali, talvolta troppo ricca. A meravigliarmi fu la vasta possibilità di scelta fra quelle forme, attinta ai tre maggiori dialetti greci e determinata di volta in volta dalle esigenze metriche dell’esametro. Quell’Omero tricipite qualche dubbio me lo fece affiorare spesso alla mente.
A volte mi venne da pensare a un’elasticità eccessiva di quel greco, tipica della gomma da masticare. Mi sono sempre ripromesso di vedere come stessero le cose nei frammenti papiracei dei poemi omerici che non collimano con i testi giunti fino a noi, ma me lo hanno impedito altri interessi più terra-terra e soprattutto l’indolenza di passare alcuni giorni all’Istituto Papirologico fiorentino per rendermene meglio conto.
Per di più mi pareva scontato che qualcuno si fosse già occupato della faccenda, come è probabile. Ma ricordo anche che negli anni Cinquanta, quando lavoravo alla tesi, sempre all’Istituto Papirologico, sentii una discussione al riguardo fra Nicola Terzaghi, allora Presidente dell’Istituto, e alcuni studiosi: in breve, la tradizione dei testi epici greci deve essere stata tanto complessa, che certe discrepanze nei poemi sono ammissibili.
Quel senese era un falsario colto che a mio parere si nascose dietro un numero impressionante di pseudonimi, autori dei grandi poemi epici dell’antichità, di tante opere storiche e filosofiche, e forse anche di certe parti delle sacre Scritture.
Di lui si potrà pensare e dire quello che si vorrà, ma se si ammetterà che senza di lui non avremmo avuto la splendida fioritura del Rinascimento, tanti giudizi al riguardo dovranno essere espressi con la cautela necessaria. Forse finirà per essere considerato il genio letterario più grande del pianeta Terra, nonostante che sia stato un falsario.