Nell’episodio di Paolo e Francesca la vendetta prevale sulla pietà.

Un articolo di Cesare Sughi, comparso di recente su “La Nazione” (3 luglio 2014, mi ha portato a dare una nuova interpretazione del famoso episodio, che per primo fu narrato da Dante nel V Canto dell’Inferno, quello dei lussuriosi.
Il poeta “ne avrebbe sentito parlare, durante il suo errare da esule, alla corte dei conti Guidi, potenti fra Toscana e Romagna, nel castello di Romena”.
Si narrava che le temibili famiglie dei ravennati Da Polenta e dei riminesi Malatesta “decisero di sancire la concordia ritrovata con un matrimonio fra i loro figli,… la giovanissima e bellissima Francesca… e l’anziano e sciancato Gianciotto… Nozze per procura, quindi, perché per evitare un rifiuto da parte di lei le fu inviato il fratello dello storpio, l’affascinante Paolo…, verso il quale Francesca fu immediatamente presa d’amore, benché sapesse che era sposato…
Giangiotto subodora, spia i due, che un giorno vengono visti leggere insieme gli amori di Ginevra e Lancillotto, finché – è sempre lei ad avere, da donna, la forza di ricordare – «questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante».
È la morte certa per entrambi. La punizione. Ed è, per Dante, un interrogativo lancinante. Come può l’amore innocente, l’amor cortese che, non dimentichiamolo, univa lui e Beatrice e gli era stato insegnato da Guinizzelli, diventare peccato? Non certo per la sua forza, per la sua voglia di realizzarsi pienamente con l’anima che si ha di fronte. È l’adulterio che brucia le navi alle spalle dei due dannati, confinandoli nel secondo cerchio della pena che non avrà mai fine. Per una volta Dante ripone l’abito del moralista per assumere quello dolce, turbato, quasi complice, di chi partecipa a uno strazio umano che potrebbe toccare anche a lui.
«E caddi come corpo morto cade», è l’ultimo verso, l’ultimo atto di Dante. «Omnia vincit amor, et nos cedamus amori», l’amore vince tutto e anche noi cediamo all’amore, dice Virgilio nelle Bucoliche. Attenzione, però: «cedamus» è un congiuntivo esortativo, significa un chiaro invito a cedere all’amore. Come Paolo e Francesca e come sa fare solo la poesia. Ma a che prezzo”.

Ci sarà da discutere sullo scritto di Cesare Sughi, da me sopra ampiamente citato, e sui versi di Dante. Anche sull’amore cortese, a lui “insegnato da Guinizzelli”, che lo univa a Beatrice, ci sarebbe molto da precisare. Sono convinto che, se si leggono a fondo le cinque canzoni e la quindicina di sonetti che fanno parte del canzoniere del cosiddetto poeta bolognese, si deduce che in quelle composizioni non c’è traccia della teoria prestilnovistica dell’amore che rasserena e innalza.
Ci troviamo invece davanti alla concezione cecco-ovidiana di un amore spietato e violento che rende schiavo chi ha osato fissare gli occhi della donna in cui il dio si è posto in agguato, riducendolo a una semplice parvenza umana, più simile a una statua inanimata che a un essere vivente. Per me il canzoniere Guinizzelli  è solo un bel falso di Cecco Angiolieri che vuole farsi gioco del nemico Dante, dei suoi eterei ideali d’amore e della sua ansia di liberazione dal peccato.
L’ho sostenuto in un’edizione del 2007, destinata ai soci dell’Accademia dei Rozzi di Siena, ora da me riveduta e corretta, che per il momento non ho intenzione di pubblicare. Mi sono stancato a lavorare su edizioni non facili, come ho fatto di recente per le Rime di Dante Alighieri (ilmiolibro.it, Siena 2014), senza che poi nessuno si degni di scriverci sopra neanche una bella stroncatura.
Se ho ragione, o prima o poi verrà fuori come stanno le cose: addirittura, finora i filologi non si sono neanche accorti, quanto al Guinizzelli, che nella sua prima canzone si tocca il tema della masturbazione e nel sonetto 11 non si è capito che il cosiddetto poeta bolognese finge di pentirsi del desiderio di baciare la bambina Lucia per non contrariare l’amico Dante, dominato da forte passione  per le giovanissime (i nove anni di Beatrice nel falso della Vita nova sono molto indicativi).
La spiegazione più logica è che Cecco, l’autore vero del canzoniere, attribuendo il sonetto a Guido Guinizzelli, messo dal sommo poeta fra i lussuriosi del Purgatorio, faccia in modo che Guido si vendichi dell’ipocrita Dante il quale, pur peccando come e più degli altri, ha riservato per sé la visione di Dio.
Ma veniamo ai versi danteschi e in particolare alle parole Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse, attribuite a Francesca.
Galeotto (Galehault o Galehaut in francese) è un personaggio di vari romanzi del ciclo bretone, amico di Lancillotto, che favorì l’amore dello stesso Lancillotto con la regina Ginevra.
I critici non sono tutti d’accordo sul fatto che Galeotto, un funzionario reale, un siniscalco, venga parafrasato al libro leggendo il quale i due amanti finiscono per gettarsi l’uno fra le braccia dell’altro. Tuttavia questa forma di traslato è generalmente accolta.
Ma chi fu a scrivere i romanzi del ciclo bretone che parlano di Lancillotto e di Ginevra, moglie del re Artù? La storia del loro amore tragico appare per la prima volta nell’opera del francese Chrétien de Troyes intitolata Lancillotto o il cavaliere della carretta, e il nome di Ginevra, pur fra variazioni ortografiche, figura anche nella Storia dei re di Britannia di Goffredo di Monmouth. Quest’ultimo, un vescovo, sarebbe vissuto nella prima metà del XII secolo e il romanziere-poeta Chrétien, forse un chierico vissuto in Inghilterra, sarebbe nato a Troyes verso il 1135.
Di Lancillotto tratta uno dei più celebri romanzi arturiani del XIII secolo, il Lancelot en prose, del quale nel 2013 in provincia di Siena si è scoperta un’ignota traduzione italiana su cui attualmente stanno lavorando alcuni filologi, ma anche, per esempio, lo splendido Novellino, da me attribuito già da alcuni anni a Cecco Angiolieri.
Per farla breve, nell’articolo intitolato La vera identità di Rustichello da Pisa e di Chrétien de Troyes, che fa parte del saggio L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angiolieri (Siena 2014, ilmiolibro.it), ho sostenuto che tanto Rustichello da Pisa, definito da Valeria Bertolucci Pizzorusso, nella sua “Prefazione” al Milione, un tardivo e modesto narratore di storie cavalleresche nel francese “gotico” del romanzo cortese, quanto Chrétien de Troyes, altri non siano che pseudonimi di Cecco Angiolieri.
Non solo: sono anche convinto che lo stesso Goffredo di Monmouth, il monaco Nennio del X secolo, autore della breve Storia di Re Artù e dei Britanni, e perfino Gildas il Saggio, vissuto nel VI secolo, abate e monaco scozzese, fondatore di monasteri, venerato come un santo dalla Chiesa cattolica, autore di un’opera intitolata De excidio et conquestu Britanniae, pubblicata di recente in italiano sotto il titolo La conquista della Britannia, siano pseudonimi del falsario Cecco.
Tutti e tre possono anche essere esistiti, ma le opere a loro attribuite sono state composte dal senese. Ne parlerò fra breve nel mio sito internet (www.menottistanghellini.com), se non troverò ospitalità in qualche periodico.

Tiriamo le somme. Se le mie congetture saranno accolte, anche l’episodio dantesco di Paolo e Francesca andrà interpretato diversamente da come si è fatto finora.
Dante, alunno-amico di Cecco, presto divenuto fiero nemico del senese, doveva conoscerlo bene come falsario, vero autore di tutti i romanzi del ciclo arturiano: condannando per bocca di Francesca l’amore cortese, eccitatore di passioni sensuali, bolla l’odiato Cecco come istigatore al peccato. Galeotto, quindi, più che un traslato, è Cecco peccatore, uno scrittore ruffiano, un pezzo da galera immorale.
Come si può vedere, l’odio di Dante contro il vecchio amico-mentore, degno di almeno un po’ di riconoscenza (senza Cecco forse non avremmo avuto la Commedia), nonostante un retroscena a noi ignoto, straborda anche dall’episodio dei due amanti. Il sommo poeta si mostra in questo poco magnanimo, ma lui è così, un uomo tutto d’un pezzo e poco conciliante, un giudice inflessibile.
Si veda per i rapporti fra Cecco e Dante, finora rimasti nell’ombra, l’articolo Il vero maestro di Dante non è ser Brunetto nel mio saggio Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto..., (Siena 2013, ilmiolibro.it, pp. 106.121).
Senza dubbio qui il sommo poeta si distacca decisamente anche dalla posizione assunta nelle Bucoliche da Virgilio sull’amore. Tuttavia congetturare che avesse intuito nelle Bucoliche e nella stessa Eneide opere spurie di Cecco mi sembra troppo audace. Se fosse vero, le fondamenta della Commedia comincerebbero a ballare la rumba.
Per ora sarà meglio tenere il dubbio nel cassetto.
Ma finalmente, dopo secoli, in base a una lettura più attenta, nell’episodio di Paolo e Francesca finisce per prevalere sulla pietà commossa verso la sorte dei due amanti l’odio veemente contro Cecco, che animerà Dante per tutta la prima cantica, tanto forte e violento, che solo in minima parte si quieterà anche nell’atmosfera più rarefatta del Purgatorio.
Sia stata o no una falsa tenzone quella costituita da alcuni sonetti di Cecco irridenti, sarcastici e offensivi, l’episodio dei due amanti costituisce la risposta sferzante che il sommo poeta affidò con successo alla sua Commedia tramite un verso icastico messo sulle labbra di Francesca e ripetuto per secoli da innumerevoli lettori più o meno colti, tutti ignari della carica di odio e di vendetta in esso contenuta.

Con i suoi difetti Cecco, superiore per cultura all’amico-nemico e dalla mentalità più aperta, a leggere attentamente i suoi sonetti che hanno a che fare con Dante e le Rime finora a quest’ultimo attribuite, per me a torto, talvolta apparirebbe incline a qualcosa che forse chiamare riconciliazione sarebbe eccessiva, ma i due in fondo erano accomunati dalla loro condizione di esuli, e questo va tenuto presente, anche se l’ostacolo maggiore era costituito dalla concezione particolare sulla poesia propria del fiorentino, che aveva pochi dubbi intorno alla superiorità dei propri ideali artistici e amorosi, strettamente legati con la religione e tramite la donna-angelo capaci di innalzare l’uomo, per quanto peccatore, alla visione beatifica di Dio.

Questo articolo è stato pubblicato sul periodico “Le Antiche Dogane” nell’ottobre 2014