L’attuale invasione dell’Europa vista attraverso i falsi di Cecco Angiolieri.

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Chi per primo capì le conseguenze più gravi delle grandi invasioni barbariche, che esasperarono la crisi dell’impero romano e port+arono ai cosiddetti secoli bui dell’Europa altomedievale, nacque a Siena nella seconda metà del Duecento. Quando, non si sa di preciso.

Si chiamava Cecco Angiolieri, aveva fatto studi per diventare notaio, e finora è noto solo come autore di oltre un centinaio di sonetti: sue grandi passioni erano la letteratura e la cultura enciclopedica. È congettura comune che sia stato un po’ più vecchio di Dante, nato nel 1265.

Per motivi che ho spiegato altrove e che sarebbe troppo lungo riassumere, sono più propenso a pensare che sia stato almeno dieci anni più giovane del fiorentino, dapprima suo amico e alunno, divenuto in seguito il suo più grande nemico.

Per ora si può anche fare a meno di precisare meglio particolari come questi, tanto più che ce ne sono altri non meno importanti da mettere in luce. Uno, per esempio, è che i familiari del senese, originari forse delle Marche o dell’Umbria, erano ebrei convertiti. Ce lo suggerisce il cognome stesso Angiolieri e il fatto che fossero banchieri. Il severo e imperioso Angioliero, suo padre, lo costrinse a studi molto duri e perfino a apprendere l’antico ebraico.

Ce lo dice lo stesso Cecco, nascosto sotto le vesti del suo prestanome Iacopone da Todi, che in una delle “Laude” ci informa sulla propria formazione culturale.

Altra pecularietà del senese era quella di avere un carattere allegro e giullaresco, che lo rendeva bene accetto in feste e banchetti, mentre altri aspetti della sua personalità ce lo mostrano come iracondo e bisessuale. La natura a volte esige compensi: suo nonno, di nome Angioliero anche lui, famoso per aver fatto ingenti prestiti al papa Gregorio IX, era un donnaiolo accanito, tanto che a Siena era stato soprannominato Solafìca.

Le passioni di Cecco erano altre, anche se con le donne ci andava, almeno a leggere i “Sonetti”, l’unica opera con il suo vero nome nel frontespizio, e altre composizioni attribuite a suoi prestanome, ma sue per lo stile inconfondibile.

E che non fosse impotente lo provano i cinque figli avuti dalla moglie, a lui invisa, che forse si chiamava Ughetta Casali e apparteneva a una famiglia illustre di Cortona. A Siena, dove si conoscevano bene le sue inclinazioni sessuali, forse nessuna ragazza avrebbe acconsentito a sposarlo, sebbene sua madre fosse una Salimbeni e lui fosse figlio unico, destinato a ereditare un patrimonio molto ingente che disprezzava e che, quando alla morte di Angioliero finì nelle sue mani, dissipò alla svelta, forse perché la maggior parte di quei soldi, in gran misura appartenuti alla Chiesa di Roma, per lui erano farina del diavolo.

Cecco aveva tanti difetti, ma seppure indirettamente ci ha confessato molto di sé. Basta capire gli pseudonimi sotto i quali si è nascosto, e sono numerosi.

Se fosse dipeso da lui, non avrebbe mai fatto lo sbaglio di sposarsi, ma Angioliero era un uomo tutto di un pezzo e si illudeva che il figlio, formandosi una famiglia, avrebbe abbandonato un modo di vivere disordinato, con inclinazioni sessuali fuori ordinanza e chiacchierate in città.

Cecco, servendosi addirittura dello pseudonimo femminile di Compiuta Donzella e identificandosi in questa “ragazza dotata di perfetta cultura”, ci racconta tutto della faccenda. Il guaio è che gli studiosi ancora non l’hanno capita e fanno di tutto per non capirla. Forse questo basterebbe a far nascere molti dubbi su una già vacillante letteratura italiana delle origini.

Anche il fatto, per esempio, che Cecco sia stato multato un paio di volte per aver contravvenuto al coprifuoco vigente in città ci dice molto della sua intensa vita notturna. La conferma arriva da un suo sonetto osceno, da lui attribuito a un certo Granfione. Odiava le armi e le guerre, e fu un cattivo soldato. Sappiamo che durante l’assedio posto dalla repubblica senese al castello maremmano di Turri si allontanò più volte senza licenza per tornare a Siena.

Era guelfo accanito, ma odiava i papi e la Chiesa di Roma perché la loro ricchezza sfacciata per lui costituiva un insulto agli ideali cristiani aperti verso i poveri e i derelitti. Di qui a caldeggiare gli ideali patarini, fortemente osteggiati dall’alto clero, e poi quelli francescani, il passo fu breve.

Il suo prestanome Ruggeri Apugliese ci racconta, in una composizione poetica mutila ma di grandepotenza e realismo descrittivi, il processo cui fu sottoposto a Siena dalle autorità religiose sotto l’accusa di patarinismo, vale a dire eresia, accusa che allora implicava anche la condanna al rogo.

Cecco in un documento pubblico figura deceduto prima del 1313  e in un altro dell’anno precedente i suoi figli avevano rinunciato alla sua eredità piena di debiti. Ma in un modo o in altro lui, scaltro e intelligentissimo, deve essere riuscito a mettersi in salvo da quella condanna fuggendo in esilio per vivere nell’ombra sotto una selva di nomi inventati via via.

La mia non è una semplice e facile congettura di comodo. Mi sento di sostenerla con decisione perché, se lo si fa morire verso il 1313 seguendo i manuali, non si saprebbe a chi attribuire i più grandi capolavori, gloria della nostra civiltà occidentale.

Tanto per fare solo pochi nomi, senza Cecco oggi non leggeremmo le opere attribuite a Omero, Platone, Aristotele, Virgilio e ai santi Gerolamo e Agostino, non perché le abbia riscoperte lui, ma perché è stato lui a ricrearle e a farle rivivere. Siamo seri e teniamo presente questo: come è possibile che per una decina di secoli delle letterature di Atene e Roma non se ne sia saputo più niente, e poi all’improvviso dalle tenebre del nulla siano riemersi tanti codici meravigliosi in grado di far sbocciare insperatamente una civiltà chiamata Rinascimento?

Prima c’era il deserto. Se ne rese conto anche il senese grazie alla sua passione di enciclopedico portato a viaggiare per l’Europa e per altre parti del mondo allora conosciuto sul dorso delle mule, animali per i quali un giullare colto come lui aveva una vera passione, forse anche per la natura ibrida dell’animale, simile alla propria, e forse perché la mula, in base alla antica religione pagana, faceva parte del corteggio di Bacco e di Sileno: i satiri se ne servivano addirittura per sfogare la propria lascivia.

Ma Cecco talvolta, viste le sue non floride condizioni economiche, si deve essere servito del famoso cavallo del santo.

Viaggiò per l’Italia tutta, visitando conventi e monasteri, soprattutto quest’ultimi, in cerca di opere dell’antichità. Non esitò nemmeno a spingersi in Francia, in Inghilterra, in Irlanda, ma soprattutto laddove, come in Belgio, Olanda e Germania, luoghi più sicuri, sperava di trovare quanto fosse sopravvissuto alle invasioni barbariche che sconvolsero e portarono alla rovina l’impero romano.

Si spinse perfino a Costantinopoli e in Egitto. Ma deve aver trovato ben poco di quanto pensava che fosse rimasto delle opere del mondo greco-romano.

Di lì il suo piano di ricreare i capolavori perduti delle antiche civiltà e di piazzarli nelle biblioteche dei monasteri più sicuri d’Europa. Un altro avrebbe ritenuto impossibile tutto questo e ci avrebbe rinunciato in partenza, ma non lui, con la sua intelligenza geniale, la sua fantasia, e soprattutto la sua facilità di apprendere le lingue, morte o vive.

La sua prima grande passione letteraria fu quella per i romanzi in prosa e in poesia del ciclo bretone e arturiano. Dominava con facilità il francese antico e scrisse opere piene di amori, come quelli con al centro i personaggi di Lancillotto, Ginevra, Tristano, Palamides e tanti altri, di duelli e di avventure con al centro il re Artù e il mago Merlino, proiettate nel mondo cavalleresco medievale. Un’altra sua gloria è quella di aver fatto rivivere, rifacendosi a una cronaca ipotetica attribuita a Turpino ma senz’altro scritta da lui, nell’antico francese e nel volgare italiano, personaggi dell’epopea carolingia come il suo più grande imperatore, paladini come Orlando e Olivieri, e le lotte fra cristiani e saraceni.

Sembra perfino strano che uno come lui, che odiava la violenza e le guerre, figlie del desiderio di potenza e ricchezza, abbia indugiato tanto su temi come questi, ma alla base di tutto c’è la sua natura di giullare colto.

Eppoi i suoi ideali cavallereschi fanno leva soprattutto sulla difesa dei più deboli e diseredati, e le lotte e i duelli che descrive a lungo mirano a far trionfare la giustizia, a condannare la natura tracotante degli uomini e anche a dare qualche istante di felicità ai miserabili tramite i suoi eroi guerrieri, sempre generosi dei propri averi e pronti a rischiare la loro giovane vita per gli altri.

L’ho sostenuto ampiamente nei miei saggi, ma nessuno ci ha detto sopra una parola: Cecco si nascose anche sotto quello che è ritenuto il poeta francese più grande prima di Dante, vale a dire Chrétien de Troyes, sul quale si è scritto tanto e capito poco: non sono casuali il suo nome e il suo cognome. Il secondo fa pensare, oltre a una città della Francia medievale, anche alla Troia omerica, costretta a una guerra sanguinosa dai greci avidi e spietati verso pastori pacifici, con il pretesto di una umanissima vicenda d’amore fra due giovani.

Gli stessi suoi poemi come “Iliade”, “Odissea” e “Eneide” sembrerebbero in aperta contraddizione con la sua natura e i suoi ideali. Ma non è così: dietro i duelli infiniti dell'”Iliade” c’è la ripulsa del sangue versato nelle guerre nate dal desiderio di maggiore potenza e ricchezza e l’eroe dell'”Odissea” non è tanto Ulisse quanto l’antropofago ciclope Polifemo, il cui nome stesso cela un fine poeta desideroso di vendicare i pacifici pastori troiani, aggrediti dai greci ingannatori e avidi con il pretesto di un’umanissima vicenda d’amore.

Anche il personaggio di Enea non è bene in chiave con gli ideali di Cecco, ma secondo lui le strutture dell’impero di Roma, edificate con il sangue e i sacrifici di tanti popoli assoggettati per volontà di potenza e desiderio di ricchezza, avrebbero spianato la strada alla provvidenza divina nell’intento di riunire tanti popoli pagani cementandoli con la fede cristiana, in vista di un’umanità futura non tormentata da eccessive disparità economiche.

Ogni tanto dalle sue opere fanno capolino, oltre alla formazione giovanile patarina e francescana, anche i principi comunistici del suo “alter ego” Platone, nel quale non appare strana l’ammirazione per gli spartani bellicosi e valorosi: essi, conducendo una vita dura, morigerata e aliena dal lusso, non erano animati da ideali di potenza e di ricchezza come, per esempio, gli ateniesi. Si spiegano così le simpatie per il regime spartano nel personaggio di Socrate, di cui ci hanno parlato Platone e Senofonte, pseudonimi del senese, animati dagli stessi ideali politici.

 

Le “Bucoliche” e le “Georgiche” di Cecco-Virgilio rispecchiano la mentalità del senese che esalta la vita semplice e modesta dei pastori e dei contadini, dura ma dispensatrice di lavoro e di pace. Il commercio, invece, infondendo negli uomini il desiderio della ricchezza, li spinge a vivere pericolosamente, a affrontare rischi di ogni genere per l’ansia di possedere sempre di più.

 

Ho scritto queste parole in un articolo intitolato “Virgilio ricreato da Cecco. Ipotesi sul metodo di lavoro del senese” (“Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto…”, ilmiolibro.it, Siena 2013, pp. 59-63). Nell’articolo successivo ho messo in luce che amava le api, la cui vita per lui avrebbe avuto molte caratteristiche comuni con quella di spartani, monaci, frati.

Arriva a farne parlare quattro suoi portavoce: Virgilio in quanto poeta inimitabile, Plinio il Vecchio con le sue nozioni di grande naturalista, Varrone, appassionato e curioso cultore enciclopedico, Columella con la sua esperienza pratica di abile agricoltore che intende giovare ai contadini laboriosi.

Tutto questo non esclude certo che Omero, Esiodo, Platone, Aristotele, Virgilio e altri autori siano esistiti e abbiano scritto alcune opere a loro attribuite, ma non certo quelle che leggiamo noi.

Nella parte finale dello scritto ho sostenuto che il falsario, se non si vuole ricorrere all’ipotesi estrema che abbia distrutto parte dei codici originali eventualmente rinvenuti, dopo averli forse ricopiati almeno in parte, ci abbia lavorato sopra con la pietra pomice per ottenere nuovo materiale scrittorio di cui aveva continua necessità, data la sua immensa fertilità di scrittore.

Con a disposizione pochi dati reali sul mondo antico, in base ai miseri resti scampati alla rapina e alla rovina di biblioteche, monasteri e conventi, costituiti forse da qualche epitome libraria e da qualche cronaca, sarebbe riuscito a ricreare i monumenti letterari più significativi delle civiltà greco-romana e altomedievale aiutandosi con il poco in suo possesso e in parte con la fantasia, dote di cui la natura l’aveva abbondantemente fornito.

Le congetture di cui parlo e scrivo da alcuni anni nessuno specialista le ha ritenute degne di una sola nota. Forse mi sarò anche sbagliato, ma perché non prendere in considerazione che potrebbero avere sbagliato tanti studiosi del passato e del presente?

La filologia non è una scienza esatta: quando leggo tante ricostruzioni del testo tràdito di qualche opera classica in base ai codici, mi viene da ridere, e rido anche di tante conclusioni dei paleografi, che in base alle scritture sono arrivati a far risalire quei codici a secoli in cui di esse non si sapeva più niente. Ma a parte i codici, passibili di falsificazioni, che senso ha insistere a dire che, per esempio, l’autenticità delle opere di Virgilio e di Properzio è dimostrata dalle citazioni di Plinio e di Aulo Gellio e altri, se ho ragione io a sostenere che Plinio e Aulo Gellio, e non sono i soli che citano quelle opere, non sarebbero che pseudonimi di Cecco?

E se Cecco fosse stato più bravo e più abile di tanti specialisti dei tempi passati e presenti? Si tenga presente che non era un professore (anche se a Firenze aveva iniziato Dante alla letteratura, e a Milano per breve tempo, sotto il nome di Bonvesin da la Riva, aveva istituito una specie di scuola privata che metteva in grado i giovani di affrontare gli studi universitari), ma un uomo di genio che ha ricreato autori del livello di Platone e Aristotele.

Se attraverso articoli e saggi sono arrivato a scoprire dei bellissimi falsi in tutte le opere minori attribuite a Dante, che per quelle in volgare avrebbe usato un improbabile antico idioma senese e che, con la sua cattiva conoscenza del latino, per la quale il suo maestro Cecco lo ha preso spesso in giro, non sarebbe stato in grado di comporre opere come il “De vulgari eloquentia”, le “Egloghe” e le “Epistole”, è probabile che il falsario non si sia limitato a queste opere, ma abbia invaso il campo della letteratura italiana delle origini e di quelle europee, da Omero fino al tardo Medioevo.

Se avessi ragione a sostenere quanto sopra, Cecco sarebbe un grandissimo artista, certamente il più grande esistito al mondo, senza dubbio un falsario, ma delle sue opere infinite si arriverebbe a capire la sublimità e l’importanza solo se per ipotesi si provasse a eliminarle come spurie: la letteratura greca, tranne quella frammentaria riemersa dai papiri d’Egitto, sparirebbe insieme a quella latina, questa priva quasi del tutto dell’appoggio di scoperte papiracee rilevanti, ma scomparirebbe anche quella latina altomedievale.

Ci troveremmo con un abisso culturale alle spalle: forse meglio i grandi falsi di Cecco che niente, ma per divenire maggiormente consapevoli di questo, sarà necessario vagliarli a fondo fino a ottenere pochi dati sicuri, liberi dalle ricostruzioni geniali del senese, e confermati da scoperte archeologiche più sicure, se sarà possibile.

La perdita di tante opere dell’antichità finirà per apparire culturalmente incolmabile.

 

Tutto questo dovrebbe essere per noi una lezione utile per affrontare ai nostri giorni l’invasione solo apparentemente pacifica di popoli in fuga dalle guerre e dalla miseria, ma soprattutto sospinti da un’esplosione demografica dirompente. Sono convinto che se i principi morali cristiani non avessero finito di fiaccare gli antichi romani, le cose allora sarebbero andate diversamente: ma senza tirare in ballo tante ipotesi, gli invasori in evenienze come queste finiscono sempre per avere la meglio. La crisi delle nostre società occidentali è soprattutto una crisi delle nascite.

Le migrazioni non sono mai pacifiche, ma noi abbiamo la tecnologia, i mezzi e la forza per controbatterle. Fare affidamento sui migranti per risolvere i problemi delle nostre società, come quelli collegati ai debiti pubblici e alle pensioni divenute insostenibili, è un errore da respingere. Errori ne sono stati fatti già troppi.

Gli aiuti eccessivi alle popolazioni dei paesi poveri non hanno fatto che provocare un’esplosione della loro natalità. Se fino al 1970 nel mondo eravamo poco più di tre miliardi, fra non molto di questo passo arriveremo ai nove miliardi di esseri umani i cui problemi non potranno essere risolti da buonismi, ideologie, religioni e tecnologie varie e da saggi di professori universitari, ma solo da guerre atomiche, e gli stermìni di dittatori come Stalin e Hitler al confronto finirebbero per apparire cose dappoco.

I cambiamenti repentini della cancelliera Merkel sulla soluzione dei problemi migratori appaiono significativi. Lasciarsi piegare ascoltando la parola delle autorità religiose e di politici che aspettano solo di tornare a mettere alla prova i loro ideali e i loro programmi respinti dalla storia, vuol dire condannare alla fine la nostra società capitalistica, che avrà tanti difetti, ma che finora un certo benessere ce lo ha dato.

Sbagliarono i romani cristianizzati e ora stiamo di nuovo per fare lo stesso sbaglio anche noi.

Cecco fu il primo a capire la gravità della perdita della cultura alla base della antica civiltà greco-romana. Lui tuttavia vedeva nella cristianizzazione del mondo il lato positivo delle invasioni barbariche, anche se la sua altro non era che una bella illusione. Basta guardare a come è andato il corso della storia. Gli uomini e le loro azioni sono mossi da ben altro che dall’amore, dalla solidarietà e dal rispetto degli altri. Dove siamo arrivati lo dobbiamo ai nostri antenati che hanno lottato duramente. Ora dipende da noi se mettere o no a repentaglio il nostro avvenire e la nostra cultura prendendo decisioni avventate.

Se si continuerà a lasciare il peso di queste decisioni nelle mani di donne, che in politica vanno bene solo fino al momento di scelte difficili e cruciali, e di politici chiacchieroni e arrendevoli davanti a ideologie e pietismi vari, sappiamo già come andrà a finire, anche grazie a Cecco, che convince più come giullare colto che come mistico francescano.

Perché allora tenere in piedi un esercito di professionisti che costa tanto, se poi ci arrendiamo davanti a gente con mentalità tanto diversa, buona solo per fare del mondo un’immensa conigliera? Aiutiamoli per quanto possiamo, ma nei loro paesi. E talvolta bisognerà anche combattere, a dispetto del nostra avversità contro le guerre.

Al mondo non c’è niente di pacifico. La vita nel nostro pianeta azzurro è solo la bella eccezione di un attimo in un universo caratterizzato da lotte titaniche di forze naturali in contrasto fra loro. Questo attimo irripetibile non dobbiamo permettere che venga sconvolto prima del tempo da gente imbarbarita, mossa dall’odio e da illusioni varie.

Se l’Inghilterra durante la seconda guerra mondiale non avesse avuto Churchill, l’Europa e il mondo non sarebbero quelli di oggi. Saranno gli Stati Uniti d’America, con gravi problemi interni che esplodono di frequente, ancora una volta in grado di salvare la nostra traballante civiltà occidentale? La storia non sempre si ripete e noi europei non siamo più in grado di difenderci per tanti motivi che tutti sappiamo.