La chiave di lettura della novella di ser Ciappelletto nel “Decameron”.

A mio parere finora gli specialisti non hanno capito che nella prima novella del Decameron, quella di ser Ciappelletto, l’autore ha calcato a bella posta la mano su certi particolari, che forse sono autobiografici, facendo di tutto per suggerire ai lettori: “Attenti al personaggio principale di questa prima novella. Posso anche avergli attribuito qualcosa di troppo, ma quel notaio rispecchia molto di me, della mia vita e delle mie opere”.
Nessun lettore e nessuno studioso finora c’è arrivato perché, in base all’opinione dominante, Giovanni Boccaccio ormai anziano, creatosi la nomea improbabile di Giovanni della Tranquillità, appare avere poco in comune con quel notaio iracondo, malversatore, spregiudicato e omosessuale, che in punto di morte riesce a ingannare i fedeli ingenui e creduloni facendosi passare per un mezzo santo.
Secondo me, che vedo nel cosiddetto certaldese uno pseudonimo di Cecco Angiolieri, quest’ultimo ha molto da spartire con il notaio pratese, simile nell’aspetto a un piccolo tronco o a un bariletto.
Prima di tutto anche il senese era sere, vale a dire notaio. Mancano le prove che nella vita reale non si facesse scrupolo di falsificare gli atti e di ricorrere a false testimonianze come ser Ciappelletto, ma un simile comportamento in Cecco non stupirebbe.
Nemmeno meraviglierebbe troppo vederlo nelle vesti di violento e di iracondo, capace di arrivare a ferire e a uccidere, visti i suoi trascorsi: da giovane a Siena fu coinvolto in un processo per l’accusa di aver ferito, forse mortalmente, un tale Dino da Monteluco durante una rissa, riuscendo a sgabellarsela grazie al probabile intervento del padre Angioliero, banchiere piuttosto in vista nella città, figlio di un altro Angioliero, un donnaiolo accanito, soprannominato Solafìca, divenuto ricco e famoso per i suoi prestiti a papa Gregorio IX.
Della voracità di Cecco ci ha lasciato testimonianza Dante nell’episodio infernale del goloso Ciacco. Contro il parere di tutti i dantisti ho dimostrato che Ciacco può essere solo Cecco, che da amico e maestro di Dante, per motivi a noi ignoti ma facilmente intuibili (basta leggere come si deve Vita nova e Rime di Dante, due splendidi falsi dell’Angiolieri), si attirò l’odio del fiorentino.
Ho portato addirittura le prove, rifacendomi alla Commedia e ai sonetti di Cecco-Folgóre, che il senese fece parte senza ombra di dubbio della brigata spendereccia senese: qui ci sono di mezzo il sommo poeta, alcune opere che Dante non si è mai sognato di scrivere, e tutto il bel castello di carte che a Firenze si è creato per dare maggiore lustro al proprio cittadino più grande, ma anche più gloria e vantaggi economici alla città, con l’appoggio autorevole dell’Accademia della Crusca.
Queste non sono affermazioni improvvisate. Chi volesse rendersene meglio conto, visto che non sono cose dappoco, non ha che da leggere un mio saggio intitolato Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto… (Siena 2013, ilmiolibro.it)
Un particolare importante è costituito dal nome vero del personaggio, vale a dire ser Cepparello, che in Francia divenne ser Ciappelletto: i francesi, infatti, non sappiendo che si volesse dir Cepparello, collegando nella loro lingua il nome a “cappello”, cioè “ghirlanda”, lo chiamavano ser Ciappelletto. E quel “ghirlanda” sembra quasi anticipare la beatificazione del notaio.
A questo punto sarebbe importante cercare di capire il significato di Cepparello. I commentatori chiamano in causa il notaio Cepparello o Ciapperello Dietaiuti da Prato, menzionato in alcuni documenti della fine del Duecento.
La cosa comincia a farsi interessante perché, per esempio, lo strano pseudonimo Bondie Dietaiuti, tipico di uno scampato alla morte, figura in due composizioni che chiudono la collana dei trenta sonetti cortesi di Rustico Filippi, da me pubblicati nel 2008 per l’Accademia dei Rozzi di Siena, dei quali tutti assegnai la vera paternità proprio a Cecco Angiolieri.
La parola ceppo indica la parte inferiore, quella più dura, di un tronco d’albero che sta sotto terra e dalla quale si dipartono le radici, oppure la sezione di un tronco su cui si tagliava la testa ai condannati a morte, oppure più semplicemente un grosso palo o un ciocco molto duro. Erano anche chiamati ceppi dei grossi e pesanti pezzi di legno che si mettevano ai piedi dei prigionieri e dei galeotti per impedirne la fuga. Come traslato la parola assumeva vari significati, fra cui quello di uomo di pochi scrupoli e insensibile, di capostipite (Cepparello nel nostro caso verrebbe a assumere il significato di rampollo, scavezzacollo non molto raccomandabile), e anche di regalo per le feste natalizie.
Cercare di distinguere il significato più aderente alle caratteristiche del personaggio di cui si parla nel racconto non è facile, ma propenderei per quello di persona dura, decisa e senza tanti scrupoli, di uomo dalla condotta discutibile e disposto a tutto, quasi un pezzo da galera sempre pronto a ingannare i propri simili.
Quando si legge che come notaio ser Cepparello arriva a contraffare atti pubblici, si potrebbe vedere in questo anche un’allusione dello scrittore alla propria attività di falsario, letterato colto e dalla natura giullaresca, che persegue un piano volto a irridere, con una serie impressionante di opere spurie, quanti si danno arie di dotti e di sapienti. Indicativo è anche il particolare delle prime due lettere del nome che fanno pensare a Cecco, come il suo prestanome Cenne dalla Chitarra, l’altra faccia di Folgóre da San Gimignano, un poeta grande e straordinario che non può essere venuto fuori all’improvviso. Nessuno finora è mai riuscito a collegare la formazione di Folgóre con l’ambiente culturale della sua cittadina: la grande poesia non può nascere di colpo e per caso.
Il piano di Cecco è sbalorditivo: si tratterebbe della più grande beffa mai escogitata al mondo, che investe tutte le letterature europee e ogni genere letterario della cultura alla base della civiltà occidentale, dalla poesia fino alla storia, alla scienza e alla filosofia, senza esclusione neanche delle sacre Scritture.
Per tutto questo non esiterei a spiegare il significato di Cepparello con termini che esprimono bene la sua caratteristica principale, vale a dire “imbroglione”, “turlupinatore”, “ingannatore”.
Ho segnalato quelle che sono le novità maggiori da me riscontrate di recente in questa novella, ma per capirla a fondo sarebbe necessario anche soffermarsi più a lungo sulla sua trama, come ho fatto circa sei anni indietro nel saggio intitolato Il “Decameron” è di Cecco Angiolieri. A distanza di tempo le mie ricerche hanno fatto progressi inattesi, ma quelle due paginette che trascrivo qui sotto erano già abbastanza illuminanti.

Che la novella sia da attribuire a Cecco appare indubbio da molti particolari di contenuto, oltre che di stile e di linguaggio. Prima di tutto dalla conoscenza reale del mondo degli affari in terra di Francia, legato a mercanti, banchieri e speculatori italiani. Con quel mondo l’Angiolieri venne per sua sfortuna a contatto, restando vittima di una truffa sapientemente architettata ai suoi danni: forse non sarà neppure un caso che qui si faccia menzione dei borgognoni, “uomini pieni d’inganni”, descritti come “riottosi e di mala condizione e disleali”.
Anche la menzione di Musciatto Franzesi, fiorentino di nascita, arricchitosi in Francia come banchiere e passato al servizio di Carlo di Valois, non è certo casuale. Cecco, sotto le vesti di Giovanni Villani, ne parla ampiamente nella sua “Nuova Cronica” (Libri 8 e 9).
Le cose più notevoli linguisticamente sono l’aggettivo “assettatuzzo”, che vale elegante e ben pettinato e che si ritrova pari pari nel sonetto dantesco a Sennuccio del Bene (d. 7, v. 4), un falso di Cecco, la parola “usurieri”, presente nel “Decameron” IV, 10, 1, nelle boccacciane “Esposizioni sopra la Comedia” (Canto XVII, 1), in Giordano da Pisa (163, 1) e in Guittone, insieme alle espressioni “dare per Dio” e “dare per l’amor di Dio”, frequenti nel senese e nei suoi pseudonimi.
Ma ciò che attira maggiormente l’attenzione è la figura del protagonista di questa novella, un notaio disonesto che falsa gli atti, omosessuale, golosissimo, bevitore, baro e spergiuro. Dopo una vita peccaminosa volta a malversazioni di vario genere e all’inganno dei suoi simili, ser Cepparello da Prato, chiamato Ciappelletto, “ghirlandetta” in Francia, viene incaricato da Musciatto Franzesi della riscossione di “certi crediti fatti a più borgognoni”. In Borgogna viene ospitato da due usurai fiorentini, ma si ammala gravemente e viene a trovarsi in pericolo di vita.

I due devono così affrontare una situazione difficile: non possono, morente com’è, metterlo fuori di casa, ma se terranno presso di loro un uomo macchiato da tanti peccati, che non potrà neanche ricevere l’assoluzione, correranno il rischio di essere assaliti dalla gente del posto che li odia per la loro attività di strozzini e che cerca di cogliere ogni pretesto per depredare i loro averi.
Ser Ciappelletto, venuto a conoscenza di ciò, li leva dall’imbarazzo dicendo loro che se chiameranno a confessarlo “un santo e valente frate”, metterà tutto a posto: ha offeso tanto Dio in vita, che se in punto di morte lo offenderà ancora, la differenza sarà poca.
In breve: dalla confessione piena di menzogne ben dette viene fuori un ser Ciappelletto quasi santo, che riceve l’assoluzione, l’estrema unzione e la sepoltura in chiesa con  tutti gli onori, fatto per di più oggetto della devozione dei fedeli che finiscono per adorarlo come santo dispensatore di miracoli. L’intento dello scrittore è chiaro: mettere in  evidenza come anche i peccatori più grandi possano diventare, con la compiacenza interessata dei servitori di Dio, figure esemplari degne di essere venerate dal popolo, cui la semplice fede non basta, ma cerca sempre il sovrumano e il soprannaturale, coadiuvato dai religiosi, che vedono in tutto ciò un mezzo per racimolare denaro e offerte varie.
Tutto bene, ma chi è realmente ser Ciappelletto? Sarà un personaggio reale conosciuto da Cecco o quest’ultimo sotto di lui avrà voluto rappresentare, seppure in parte, la sua vita di peccatore? Va tenuto presente che anche il senese esercitò certamente la professione di notaio: non avrà falsificato gli atti come ser Ciappelletto, ma non era stato proprio uno stinco di santo, almeno da giovane. Si sa che per un certo tempo fu omosessuale, goloso, bevitore, che praticò l’usura sospinto dal bisogno di denaro, che onorava poco il padre e la madre, che credeva poco in Dio e meno nei santi e dietro le idee eretiche celava propositi rivoluzionari per il tempo.
Se in questo ho ragione, anche parzialmente, si avrà un’altra prova della grandezza di Cecco: di sé non ci ha nascosto niente e mira a descriversi com’è, senza ricorrere a tanti espedienti e mascheramenti. Qualcuno con una fama molto più grande della sua e che fu suo nemico accanito, non seppe e non volle fare altrettanto.

Non so se siano siano pienamente affidabili queste mie congetture, ma posso solo dire che se non mi fossi persuaso dell’assetto errato di tutte le letterature europee da Omero fino al tempo del Boccaccio, non avrei certo speso una decina di anni della mia vita a lavorarci sopra nel tentativo di mettere in luce un panorama culturale europeo più vicino a quello reale.
E non è stato facile, perché le critiche di studiosi che vanno per la maggiore in Italia e all’estero me le aspettavo, ma non quelle dell’ambiente in cui vivo. Eppure, se un giorno verrà fuori che avevo ragione, la città che beneficerà maggiormente dalle mie ricerche sarà Siena, destinata a acquistare parte dell’importanza che in passato hanno avuto Atene e Roma, grazie a Cecco.
Sono convinto che di recente, per l’ingenuità di quanti ne hanno sostenuto la candidatura a capitale europea della cultura facendo leva su cose un po’ scontate come le bellezze artistiche e il palio, la città, per di più venutasi a trovare al centro di uno scandalo bancario di eco internazionale, si è vista superare da Matera.
Mi dispiace che attualmente non sia più all’altezza del suo passato, chiusa com’è da oltre sessant’anni nel cerchio soffocante di una politica a senso unico, che inalberando la bandiera delle teorie egualitarie concepite e vagheggiate non certo a Atene, ma forse proprio a Siena, dal patarino  Cecco-Platone, è riuscita a ridurre al lumicino la più antica banca del mondo. E deprimente è stata l’immagine che una Siena priva degli antichi slanci ne ha ritratta.
Cecco, inizialmente una specie di giullare colto, animato da forte passione per i viaggi, le lingue straniere, le opere in prosa, in poesia e anche di genere enciclopedico, concepì il piano grandioso e quasi impossibile di ricreare i capolavori del passato andati perduti negli anni bui in cui l’impero di Roma si disgregò, soprattutto a causa delle invasioni barbariche.
In questa sua attività, tanto incredibile da apparire perfino folle, trovò sfogo alla sua natura irruentemente geniale e portata a infrangere le regole di vita dell’ambiente borghese in cui visse parte dei suoi anni.
Costretto per l’accusa di eresia a un esilio forzato che lo ridusse a diventare un morto vivente, sperimentò un’infinità di esistenze nascondendosi sotto una folla impressionante di pseudonimi caratterizzati dalla passione di scrivere capolavori che abbracciano poesia, romanzo, saggistica, storia, filosofia, scienze varie.
Iracondo e violento come quanti si sentono perseguitati, si vendicò dei suoi simili tramite i suoi falsi infiniti, una burla epica che investe tutto il cosiddetto Umanesimo e anche le opere perdute dei più grandi autori altomedievali.
Quando gli studiosi cominceranno a rendersi conto delle conseguenze di quella che è molto più di una burla, dovranno decidere che giudizio dare su Cecco Angiolieri. E non sarà facile perché si troveranno davanti una marea di capolavori.
Se ho visto giusto sul fatto che anche in quelli ritenuti essere stati composti da san Gerolamo, sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino c’è la mano di Cecco-ser Ciappelletto, viene da domandarsi quali potrebbero esserne le conseguenze.
Ma una cosa rimane indubitabile: senza Cecco la civiltà occidentale sarebbe oggi molto diversa da quello che è, e sotto questo falsario goloso, iracondo, violento, bisessuale, tormentato dalla paura mai sopita per la condanna come eretico, dalla mania di persecuzione e forse dalla balbuzie, si cela non solo il più grande poeta e romanziere, ma anche il più grande pensatore vissuto al mondo. Come è possibile mettere a confronto con Matera una Siena per quanto malridotta?

Per farla breve ricordo i nomi di soli cinque pseudonimi del suo figlio più grande, e non c’è santi che tengano: Omero, Platone, Aristotele, Lucrezio, Virgilio.
Ma non è possibile tralasciare un autore, sotto le cui vesti di terziario francescano Cecco si nascose più a lungo, Giovanni Boccaccio, che dall’alto del suo minuscolo castello in una Certaldo ventosa come Troia, durante le giornate serene, chissà quante volte avrà guardato in direzione della selva di torri della vicina Siena. Per amore o per odio?
Nella sua tomba terragna, sulla quale andrà inciso il nome di Cecco Angiolieri, una piccola chiesa di Certaldo contiene i resti mortali di un senese che ha ricreato le opere perdute più grandi della civiltà greca, romana e altomedievale.
Quando gli studiosi di tutto il mondo si renderanno conto di questo e i certaldesi diventeranno consapevoli che la loro cittadina, grazie a Cecco, ha le carte in regola per essere un faro e un monito per la società occidentale, quella chiesa diventerà uno dei mausolei più importanti del pianeta Terra con i resti mortali di un senese iracondo, violento, malversatore, omosessuale e falsario, che ha improntato del suo genio smisurato una grande civiltà, attualmente sovrastata dai pericoli del rimescolamento solo apparentemente pacifico di popolazioni lontane dal nostro modo di vivere, che potrebbero farla scomparire o alterarla irrimediabilmente, come è già avvenuto per le civiltà precedenti che hanno contribuito a formarla.

Quest’articolo è stato pubblicato sul periodico “Le Antiche Dogane” nel maggio 2015