Il vero autore della “Vita Nova”, Cecco Angiolieri.

Del cosiddetto romanzo giovanile, da secoli attribuito a Dante, seguo l’edizione Gorni (Torino 1996), in base alla quale la ripartizione del testo presente nei codici trecenteschi risulta di 31 paragrafi, mentre nelle edizioni di Michele Barbi l’opera appariva suddivisa in 42 capitoli.
Questo è importante perché l’autore, se si tiene presente che anche i componimenti poetici in esso compresi sono 31, ribatte intenzionalmente su una simmetria costruttiva che suona offesa nei confronti di Beatrice e quindi di Dante.
Ho scritto nell’introduzione al Fiore (p.31): “Quando, meno di due anni fa, nel sonetto Guido, i’ vorrei , ritenuto fino a allora di Dante, spiegai quella ch’è ‘n sul numer de le trenta (v.10), riferito a Beatrice, con “quella che supera le trenta” cioè la trentuno, la puttana, in base a un’espressione oscena del senese antico, i filologi che si erano avventurati per tanto tempo in interpretazioni inconsistenti e cervellotiche, si chiusero in un silenzio sdegnoso”.
Che Cecco fosse un genio della simmetria costruttiva, con la quale si prende gioco delle simmetrie dantesche presenti nella Commedia, appare evidente anche nel Fiore, ma ora risulta ancora più chiaro che avevo ragione io a spiegare così il sonetto pseudodantesco contro tutti i commentatori precedenti. E questa è una prova importante su chi è il vero autore del prosimetro, per me Cecco Angiolieri.
Ma andiamo con ordine. All’inizio si ha:  In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice “Incipit Vita Nova”. Sostengono i commentatori che il libro della mia memoria è immagine frequente in Dante e che la rubrica, riservata “al titolo generale e alle partizioni interne” (Rossi), appare come “un segno rimasto nella mente di Dante” (Carducci), che lo scrittore intende trascrivere, soprattutto nella parte essenziale riguardante le rime.  Quanto al significato di Vita Nova, gli interpreti oscillano fra il valore allegorico  di “vita rinnovata dalla grazia di Beatrice”, “rigenerata” e quella letterale di “adolescenza”, “vita giovanile”, o addirittura “vita poetica giovanile per indicare una prima maniera composita ormai superata” (Rossi).
Per me Cecco ha dato a Nova il significato pregnante di “insolita”, “strana” e anche un po’ pazza perché mescolata di amore spirituale verso Beatrice, algida e lontana come una dea, e di amore passionale verso le varie donne dello schermo, in varia misura “cortesi” e “gentili”, ossia disponibili.
Metterei  in evidenza soprattutto le parole dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere:  secondo me vogliono dire che Dante nella sua giovinezza avrà studiato tanto, ma ha scritto molto poco, e che Cecco ha preso lo spunto di qui per colmare questa lacuna e per tirare un colpo mancino al suo nemico (introd. al Fiore, p. 30), componendo sotto il suo nome un tale libello. Nella epifania della gloriosa donna della mia mente Dante presenta Beatrice e sé stesso allineati per età all’interno del numero 9, fatidicamente perfetto. La angiola giovanissima appare vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, modesto e decoroso quanto si vuole, ma anche tenebroso e quasi tendente al luttuoso. Con cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia si intende per lo più che il poeta alluda a una cintura: il Gorni penserebbe a una ghirlanda, io preferirei pensare a una specie di nastro (dal lat. vitta, che Cecco senesizza in vetta, una benda intorno alla testa per bambine, forse un po’ diversa nelle donne sposate), che si ritrova in un sonetto di Cecco-Folgore (XVII, 5) e in uno di Cecco-Cino (A ser Mula da Pistoia, v. 14).
Il primo innamoramento di Dante è descritto facendo ricorso all’armamentario stilnovistico (profuso dal poeta senese nei suoi grandi canzonieri attribuiti a Dante, al suo “maestro” Guinizzelli e ai suoi pupilli Cavalcanti, Cino, Gianni, Frescobaldi, Alfani), che si rifà alla fenomenologia amorosa fondata sulla filosofia scolastica di Alberto Magno e in parte presente nei primi due libri del De Amore di Cecco-Andrea Cappellano.
Tutti quegli spiriti vitali connessi alle funzioni sensoriali, descritti con profusione di particolari minuti, contribuendo all’esaltazione dell’angiola, finiscono per stancare il lettore, mentre estasiano un commentatore come il Rossi che vede nell’ “epiteto angelico, già presente nella tradizione poetica precedente, ma rinnovato a partire da Guido Guinizzelli (1230 ca. – 1276)” un “passaggio da elemento decorativo e galante a qualificazione sostanziale nobilitante per via analogica, e spinto da Dante alla piena identificazione con Beatrice-miracolo”.
Verrebbe fatto di esclamare, con la pseudoboccacciana Licisca, un bell’Occi!. Questa serie di buffonate, per le quali tanti filologi sono andati e vanno in brodo di giuggiole, Dante l’avrebbe letta con rabbia e disprezzo. Lo stesso Cecco quando, servendosi della sua abile e seriosa ironia, scriveva tutto ciò, dovette pensare che qualcuno dalla mente sveglia non sarebbe caduto nella sua trappola e che lo scherzo sarebbe durato poco. Ma si sbagliava di grosso, e non si sarebbe mai immaginato che il culto di Dante, da lui in gran parte alimentato e intenzionalmente fomentato, avrebbe raggiunto limiti così elevati da rendere ciechi e creduloni tanti colti studiosi, dietro i quali si sarebbero mossi passivamente gli ingenui lettori. Credo di essere stato il primo in molti secoli a farsi molte risate leggendo la Vita Nova, che ai tempi del liceo mi aveva tremendamente annoiato, come del resto il Convivio, anche per via di tutte quelle note tanto lunghe e piene di fervore appassionato, per me incomprensibile.
Ne avevo incolpato la mia ignoranza e la mia superficialità. Ma ecco qualche altro punto debole. Si legge al par. 19, attribuita a Beatrice, l’espressione di Omero Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio. Nell’edizione Barbi si legge … di deo. Cecco preferisce per lo  più questa grafia, dalla poesia siciliana e dal Novellino fino al Milione, agli scritti attribuiti all’anonimo genovese, a Bonvesin da la Riva e al Boccaccio, tanto per fare qualche esempio; il Gorni nella sua edizione l’ha fiorentinizzata sulla base di qualche codice più recente.
In I, 15-24 la visione, che ha Dante immerso nel sonno, di Beatrice nuda e dormiente fra le braccia di Amore tutto allegro, avvolta in un drappo sanguigno, lascia incredulo il lettore, che sbigottisce ancora di più quando il dio dal pauroso aspecto la sveglia e dà in pasto a lei, atterrita ma docile, il cuore di Dante, e poi si allontana piangendo.
La lettura del sonetto A ciascun’alma presa, composto da Dante per i poeti fedeli d’Amore, pregati di giudicare tale visione, porta a pensare che il vero autore sia Cecco. Quest’ultimo rifacendosi al Compianto di Sordello su ser Blacatz, si prende gioco del poeta fiorentino, che una cosa simile non  l’avrebbe certamente scritta. La risposta articolata in tre sonetti dei poeti Dante da Maiano, Terino da Castelfiorentino e Guido Cavalcanti, toglie ogni eventuale dubbio al riguardo: la mano dei tre sonetti è la stessa e, guarda caso, ricorda lo stile del poeta burlone autore della Tenzone fra Dante e Forese, vale a dire Cecco.
Dante da Maiano (che nel nome stesso allude ironicamente a una grandezza maggiore rispetto a quella dell’Alighieri) arriva comicamente a consigliare il poeta fiorentino di sciacquarsi i testicoli a lungo per rischiarare la mente annebbiata e di ricorrere a un esame approfondito delle orine. Comici sono anche gli altri due sonetti, soprattutto quello di Guido, che non esita a farsi gioco apertamente di Dante. La parafrasi dell’ultima parte del sonetto toglie ogni dubbio: “Se vi sembrò che Amore se ne andasse piangendo, fu perché il dolce sogno stava per finire”. Chi ha composto il sonetto attribuito al Cavalcanti è lo stesso autore di Ciascun’alma presa, perché altro non fa che chiosare il motivo di quel pianto, oltre che sghignazzare su quel sogno, che tutto può essere tranne che dolce.
Semmai rimane oscura l’origine in Amore dell’atteggiamento inizialmente allegro, di cui nessun interprete ha dato una ragione plausibile: per me non può essere altro che il riverbero dell’allegria di Cecco, lieto di vendicarsi del nemico Dante, rappresentato a pascere del suo cuore l’angiola Beatrice.
Alludendo al sordelliano Compianto su ser Blacatz, Cecco polemicamente ironizza sulla virtù di Dante ipocrita, che per di più nella Commedia ha eletto per propria guida nell’antipurgatorio un poeta come Sordello da Goito, che il senese nel De  vulgari eloquentia (II, XII, 5) chiama Gotto (ubriacone) mantovano e che in volgare non ha scritto niente, tranne il Sirventese lombardesco, un evidente e polemico falso dell’Angiolieri (cfr. CECCO ANGIOLIERI,  I sonetti cortesi di Rustico Filippi, a c. di M. Stanghellini, Siena 2008, pp. 21-23).
Lo stile inconfondibile di Ciascun’ alma presa è quello dello stesso Cecco presente in tanti falsi, dalle Rime pseudodantesche ai canzonieri dei pupilli dell’Alighieri: appartiene al genere delle tenzoni disseminate dal senese negli scritti dei suoi pseudonimi come Guittone, Chiaro, Orlandi, Dante da Maiano.
Nella mia introduzione al Fiore ho elencato altre prove che testimoniano la paternità angiolieresca della Vita Nova (pp. 29-32). Ho parlato del senesismo benegno (canz. 20, v. 34), fiorentinizzato dal Gorni in benigno, in dispregio della rima con degno e ingegno, ho segnalato il son. O voi che per la via d’Amor passate, dove si incontra la parola chiave, molto frequente in Cecco e nei suoi pseudonimi, il cavalcantiano struggo, l’espressione gaia sembianza, presente anche nel ceccodantesco Sonar Bracchetti e nel  son. LVII, 2 di Cecco-Rustico, l’espressione scacciati tormentosi, inusuale, che sembra un’allusione ironica e un po’ cifrata all’esilio di Dante, e infine l’espressione dentro dallo, che con dinanzi da e simili è di uso costante nelle poesie e nelle prose del senese, dal Novellino e dal Milione fino al Fiore, al Trattatello, al Corbaccio, ai Fioretti di san Francesco e a molte opere attribuite al Boccaccio, compreso il Decameron.
Ma la cosa più strana si legge ai vv. 22-28 di Donne che avete intelletto d’amore: Dio dice ai santi di sopportare con pazienza che Beatrice resti sulla terra, dove qualcuno si aspetta di perderla, e questo qualcuno, una volta all’inferno, potrà dire alle anime dannate di aver visto colei che è la speranza dei  beati. I commentatori seguono il Barbi e il Maggini spiegando alcun come “pronome generico, non riferito a Dante o comunque non solo a lui”, ma “anche identificando con Dante l’indefinito alcun del v. 26, andrebbe esclusa qui un’allusione, in verità troppo precoce, alla Commedia: l’opposto destino della donna (paradiso) e dell’amante (inferno) esprime, con una iperbole non rara, l’enorme distanza fra il valore della prima, il suo immenso potere beatifico, e l’indegnità del secondo” (Antologia della poesia italiana, dir. da C. Segre e C. Ossola, Torino 1997, p. 491 in nota). Con le chiacchiere si possono  mettere le toppe che si vogliono. La verità è che queste parole in bocca a Dante suonano un po’ strane e irridenti, mentre si spiegano bene in bocca al senese, che con una sghignazzata giudica degno delle pene infernali il suo nemico, peccatore ipocrita, dal quale è stato condannato come goloso (Ciacco) e sodomita (Guglielmo Borsiere) nella Commedia.
Al par. 16 si incontra una battuta ironica sulle donne, per la cui ignoranza del latino i poeti sono stati costretti a comporre versi d’amore in volgare. Al par. 19 una battuta simile colpisce il Cavalcanti: chi scrive sostiene di essersi limitato a citare solo l’incipit delle Lamentationes di Geremia perché l’amico, cui il libro è dedicato, aveva detto di non gradire la presenza del latino nell’opera. Si sarebbe Dante lasciato andare a due battute, sferzanti più che ironiche, tipiche di Cecco, contro le lacune culturali di Beatrice e delle donne in generale, oltre che del primo amico? Nello stesso par. 16 Dante assegna un valore assoluto alla propria poesia che si innesta consapevolmente su quella della tradizione classica. L’allusione, in principio del paragrafo, alla cavalcantiana  Donna me prega, mira a accomunare Guido in tal genere di poesia, condannando invece poeti come Guittone e Guido Orlandi, inconsapevoli dell’impalcatura concettuale dei loro scritti e portati a infrangere le regole stilistiche osservate dai poeti della classicità come Virgilio, Lucano, Orazio, Omero e Ovidio.
Anche qui tutto diventa più facilmente comprensibile e meno contraddittorio se si ammette che questa è farina di Cecco, il vero autore di Donna me prega (è fuori luogo attribuirla al Cavalcanti, che sarà stato bravo e coraggioso nei duelli, abile nelle speculazioni finanziarie, ma che con la sua cultura limitata non sarebbe potuto arrivare a concetti tanto sottili e complessi) e della polemica tenzone fra il Cavalcanti da una parte e Guittone e Guido Orlandi dall’altra, presente nelle Rime pseudocavalcantiane.  Che è farina di Cecco e della sua ironia pungente, sta a testimoniarlo anche l’ultima frase, messa in bocca a un Dante pieno di disprezzo polemico: E questo mio amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente.
Tiro le somme: con la creazione di tutto questo geniale armamentario stilnovistico Cecco ha mirato solo a irridere Dante e a mettere alla berlina le sue frequenti infatuazioni per le giovinette; Beatrice come mezzo di redenzione dal peccato e come scala al Fattore è solo una bella invenzione di Dante ipocrita e peccatore, che ha la sfacciataggine di ergersi a giudice dei propri simili.
Non sarà certo sfuggito ai  lettori, nei paragrafi in cui Beatrice ha un ruolo di primo piano, l’impiego insistito dei superlativi assoluti a lei riferiti (nobilissima, gentilissima, cortesissima, ecc.): questi stessi aggettivi, usati nei confronti delle altre donne, compaiono sempre al grado positivo. Finora se ne è indicata la causa nell’atteggiamento di Dante quasi religiosamente devoto e umilmente sottomesso. Per me invece c’è nell’autore un intento volutamente ironico e apertamente beffardo. Quanto poi alle espressioni legate alla giovanissima etade di Beatrice, viene il sospetto che Cecco voglia mettere in evidenza e rinfacciare al suo nemico la forte inclinazione e la passione connaturata verso le giovanissime.
E cito per ultima cosa una particolarità stilistica che a mio modesto parere è più illuminante di molte chiacchiere solenni sul “romanzo giovanile”: l’espressione donne mie care, che nella Vita Nova appare due volte (par. 30 e finale del sonetto Oltre la spera), si ritrova  più volte nel Decameron (I, introd. 12; II,10,23; V, 10,25; VII,1,19), una volta nel Ninfale fiesolano di Cecco-Boccaccio (e voi mie care donne, Ninf. 4), un’altra in un sonetto di Cecco (e puoi hai detto alle tue donne care, CX,12), e un’altra ancora nelle Poesie musicali del Trecento, per me attribuibili all’Angiolieri. Nel Libro de’ Vizi e delle Virtudi di Cecco-Bono Giamboni si legge Figliuole mie care (63, 3).
Infine anche un sonetto letto e ammirato come Tanto gentile non può essere stato composto da Dante, che non ha niente a che vedere con le finezze psicologiche e le sottigliezze tipiche dellaVita Nova e del Convivio.  Qui si avverte una sensibilità quasi femminea, uno stile e un ritmo lontani mille miglia da quelli di qualsiasi parte della Commedia, l’unica opera che l’Alighieri ci ha lasciata: tutto il resto con lui ha poco a che fare.
La  stessa espressione onesta pare del primo verso sa tanto di allusione, ironica e volutamente dissacratrice, al significato vero del v. 10 nel sonetto Guido, i’ vorrei, l’unica spiegazione logica del quale porta, attraverso un’espressione volgare del senese antico, a colpire Beatrice nella sua integrità morale, e di riflesso Dante, come si è già visto.
Non si può continuare a parlare dell’Alighieri come di un autore che compone opere a compartimenti stagni: il Fiore, la Vita Nova, il Convivio e le Rime, se costretti a coabitare con la Commedia, finiscono per litigare fra loro in modo furibondo e chi cerca di trovare un accordo impossibile in tutto questo compie, come si è fatto per secoli, un’opera insensata.