Recentemente si è parlato su alcuni quotidiani del saluto romano. Lasciata in disparte la polemica politica, cito a memoria sperando di non alterare troppo quanto ho letto: le fonti archeologiche e storiche non ci hanno lasciato indicazioni precise al riguardo; il solo Cicerone ricorda in un’orazione l’imperatore Augusto nell’atto di salutare militarmente. Il gesto a noi noto potrebbe essere un’invenzione di D’Annunzio che durante l’impresa di Fiume fece adottare ai suoi volontari quel saluto con il braccio destro teso, di cui i fascisti si appropriarono.
Viene fatto di domandarsi come sia possibile che nel gran numero di sculture e bassorilievi relativi all’esercito di Roma giunti fino a noi dall’antichità non ci sia rimasto niente che raffiguri un personaggio ripreso nell’atto di salutare militarmente. Eppure è così, e risulta molto probabile che il poeta soldato si sia rifatto al passo di Cicerone, autore per me poco attendibile, se ho ragione a considerare dei bellissimi falsi medievali tutte le opere rimasteci del grande oratore e uomo politico originario di Arpino.
Di questi e di altri falsi ho parlato in vari articoli dei miei saggi, sostenendo ipotesi ardite, ma non campate in aria, su cui finora nessuno studioso ha stimato opportuno spendere una sola parola.
Non credo di uscire dal seminato se mi viene fatto di accogliere con molto scetticismo anche il contenuto degli articoli di quattro studiosi apparsi su Archeo (agosto 2014), raggruppati sotto il titolo principale La biblioteca infinita. Per non farla troppo lunga mi soffermerò solo sui primi due, che mi hanno offerto spunti più interessanti e incisivi per quanto intendo sostenere.
Quando nel primo, per esempio, Stefania Berlioz sostiene sul Mouseion di Alessandria, «la più rinomata istituzione culturale di tutto il Mediterraneo ellenistico», di cui «oggi ignoriamo l’ubicazione», che «anche in antico dovevano essere in pochi a conoscere l’aspetto e l’esatta collocazione di quella straordinaria casa del sapere», qualche dubbio affiora alla mente, accresciuto dalle notizie molto vaghe lasciateci al riguardo dal geografo Strabone, per il quale «il Museo faceva parte dei ‘Basileia’ (quartiere reale), un complesso gigantesco che occupava due terzi dell’intera città».
Sul Museo «aleggiava un non so che di mistero e riservatezza. Al suo interno dimorava una ristretta cerchia di ‘dotti’, scienziati e letterati provenienti da ogni parte dell’ecumene. Affrancati dalle necessità della vita, grazie alla liberalità del sovrano, essi potevano dedicarsi esclusivamente allo studio e alla ricerca». All’interno del Museo c’era una biblioteca contenente, a quanto si diceva, tutti i libri del mondo.
Fondata da Tolomeo I Sotere, fu ampliata da Tolomeo II Filadelfo che avrebbe invitato «tutti i governanti della terra» a inviare a Alessandria le opere di qualsiasi genere di autori. Galeno ricorda un editto di Tolomeo II «in base al quale tutte le navi che attraccavano al porto di Alessandria dovevano essere scrupolosamente perquisite alla ricerca di libri. I testi ritenuti di un qualche interesse erano requisiti per passare al vaglio dei ‘Dotti’ del Museo. Ai legittimi proprietari venivano restituite le copie, mentre gli originali trovavano posto in uno speciale fondo detto ‘delle Navi’. Tutto questo perché il sapere crea prestigio, aumenta il consenso, è uno strumento di potere».
A Pergamo, sempre nel II secolo a.C., la fondazione di un Museo e di una biblioteca da parte di Attalo I avrebbe finito per «scatenare una rivalità senza precedenti con Alessandria», tanto che Tolomeo IV avrebbe vietato l’esportazione della carta di papiro. Il ricorso alla pergamena avrebbe fatto salire a dismisura il costo dei libri. Sempre Galeno testimonia che questa gara fra i dotti di Alessandria e di Pergamo portò anche alla produzione di falsi all’interno dei musei, e questa è un’affermazione su cui varrà la pena di discutere più avanti.
Roberto Meneghini nel secondo articolo ha trattato l’argomento di libri e biblioteche durante il periodo di Roma repubblicana e imperiale.
Quando Roma estese il suo potere nelle regioni ellenizzate del Mediterraneo, filosofi, letterati, scienziati e intere biblioteche affluirono a Roma. Racconta Plutarco che i figli di Lucio Emilio Paolo, il vincitore del re Pèrseo a Pidna, appassionati di cultura, spinsero il padre «a scegliere, come parte del bottino a lui riservata, proprio la biblioteca del re sconfitto».
Nel I secolo a. C. il dittatore Silla, conquistata Atene, in base a quanto racconta Plutarco, entrò in possesso dei libri un tempo appartenuti a Aristotele e a Teofrasto. Intellettuali romani quali Cicerone e Varrone avrebbero messo insieme con ingenti spese biblioteche imponenti, delle quali parla Seneca come di un ornamento divenuto necessario nella casa delle persone abbienti.
Ma a Roma via via si moltiplicarono anche le biblioteche pubbliche, che nel IV secolo d.C. avrebbero raggiunto il numero di 28. Già nel 272 d.C. era stata devastata durante la guerra fra Aureliano e Zenobia la biblioteca di Alessandria e sorte migliore non toccò a alcune altre. «Anche a Roma, al volgere del IV secolo, una dopo l’altra le biblioteche vengono definitivamente abbandonate e le antiche sale di lettura riconvertite ad altro uso».
Tuttavia in Oriente e in Occidente «la sopravvivenza della cultura antica fu garantita dalle istituzioni monastiche ed ecclesiastiche». I primi umanisti, fra cui il Petrarca, i «libricciuoli» del quale andarono dispersi, avvertirono «l’esigenza di istituire una vera e propria biblioteca pubblica».
Quando si parla dei libri nel mondo antico, il cuore degli studiosi comincia a battere più forte e la passione talvolta finisce per stravolgere le loro doti razionali. L’abilità inventiva di un romanziere di prima grandezza non basta per impedirci di sorridere su notizie strane e singolari come quella di una biblioteca di Alessandria molto esclusiva, rifornita dalle navi di passaggio.
Anche quello che afferma Galeno sulla proliferazione dei falsi nelle biblioteche ellenistiche in gara fra loro non è un particolare da sorvolare, perché il giullare-falsario medievale, che a mio parere si nasconde dietro il famoso medico e scienziato, sembra alludere di proposito e ironicamente alla produzione di falsi nel mondo antico. Ma forse il particolare più interessante è quello di Silla che entra in possesso dei libri di Aristotele e Teofrasto: qui il falsario, tramite il suo prestanome Plutarco, ha mirato a autenticare le proprie opere spurie attribuite a Aristotele e al suo alunno.
Dei due filosofi, e anche di Galeno e Ippocrate, ho parlato brevemente nel mio saggio Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto… (ilmiolibro.it, Siena 2013, pp. 39, 43, 136).
Un altro segnale finora un po’ trascurato, per esempio, è costituito dal fatto che Callimaco di Cirene, grande poeta lirico, famoso come direttore della biblioteca di Alessandria, non figura in un papiro autentico di scavo, contenente l’elenco di quanti si avvicendarono a dirigere la famosa biblioteca del Museo.
Per me è molto probabile che l’autore delle composizioni liriche giunte a noi, faccio l’esempio dell’ Antologia Palatina, sia il falsario che mediante numerosi suoi pseudonimi abbia attuato un piano letterario imponente, edificando un bellissimo e affascinante castello di carte. Senza dubbio nell’antichità le biblioteche sono esistite, ma è molto significativa e un po’ strana la notizia che quella di Alessandria fosse riservata quasi esclusivamente a dotti, paragonati dal filosofo scettico Timone di Fliunte, citato dalla Berlioz, a uccelli rari intenti a beccarsi eternamente nella gabbia delle Muse.
Qui sotto per me c’è la mano del falsario Cecco Angiolieri, di cui ormai parlo da anni, che passò la sua lunga vita a ricreare la cultura del mondo antico e di quello altomedievale scomparsa durante il periodo delle invasioni barbariche e dei secoli bui a esse susseguiti, lavorando a costruirsi un glorioso monumento letterario aere perennius, che avrebbe dovuto stupire e nello stesso tempo divertire l’umanità, perché il piano del senese, una volta venuto alla luce, sarebbe apparso nella sua vera realtà, vale a dire una beffa colossale.
Sono fortemente convinto che le «istituzioni monastiche ed ecclesiastiche» di cui parla Roberto Meneghini non poterono garantire certo la sopravvivenza dell’antica cultura, ma forse a malapena la propria: le pagine di papiro e di pergamena, scampate alle distruzioni e agli incendi dei barbari, saranno servite ingloriosamente per avvolgere pesci e bistecche alla popolazione, immiserita e a poco a poco imbarbarita, di quello che un tempo era stato un grande impero.
Tutti gli autori citati nei due articoli, da Eronda, da Timone di Fliunte (il nome allude a Timone il misantropo, una delle creazioni più note e geniali dell’enciclopedico romanziere Cecco nascosto sotto i nomi dei suoi pseudonimi), da Strabone e da Galeno fino a Cicerone, Varrone, Seneca, Plutarco, Ammiano Marcellino, sono a mio parere prestanome del senese ai quali è stata conferita nuova vita letteraria.
A Alessandria Cecco si è ricreata una biblioteca ideale, da cui è escluso il vulgus profanum, dove pochi filologi di valore, talvolta litigando fra loro, si prendono cura dei falsi di Omero, di Esiodo, dei grandi lirici, tragici, commediografi, storici del calibro di Tucidide e filosofi quali Platone e Aristotele.
Ho parlato di tutto questo in alcuni saggi intitolati La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa; Omero è nato a Siena; Risolta la questione omerica; L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angiolieri, che i filologi, gelosi delle proprie prerogative, delle posizioni raggiunte, e timorosi di un probabile e imminente mutamento rivoluzionario nell’assetto delle grandi letterature europee, hanno finora ignorato.
Ho parlato anche del facoltoso Petrarca umanista, ignaro che l’amico Giovanni Boccaccio, in un modo o in un altro, gli aveva riempito gli scaffali della biblioteca di falsi sublimi in latino.
Il poeta laureato, famoso soprattutto per il suo lavoro sulla letteratura latina, voleva bene a quell’uomo goffo e grasso, ma certi lati del suo carattere non lo convincevano del tutto, e non lo tenne mai in grande considerazione.
Tuttavia il guaio più grosso per lui fu questo: non arrivò a avere mai neanche il minimo sospetto che sotto quel saio da terziario francescano si celasse un uomo dall’ingegno multiforme e dai mille volti, il cui nome vero era Cecco Angiolieri, che a me è apparso essere un grande genio universale, ma anche il più grande falsario vissuto al mondo.
Prima di morire spero di riuscire a convincere qualche studioso che ho ragione. Sarà dura, ma continuo a avere fiducia. Gli uomini sono innovatori e progressisti solo fino a un certo punto. Di fatto, quando ne va di mezzo il proprio particolare, diventano accaniti conservatori.
Forse mi illudo, ma prima che le pagine dei miei saggi svaniscano o finiscano al macero, la verità avrà la meglio.
Quest’articolo è stato pubblicato sul periodico “Le Antiche Dogane” nel febbraio 2015