Il saggio recente di Francisco Rico sui rapporti fra Boccaccio e Petrarca: nuove congetture sulla questione..

Il filologo spagnolo Francisco Rico in un suo volumetto intitolato Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Roma-Padova (ottobre 2012), recensito nel “Domenicale” del 3 febbraio 2013 da Piero Boitani, analizza le relazioni fra Petrarca e Boccaccio in sei saggi, definiti dal recensore “concisi ed eleganti”, che rivoluzionano “l’immagine tradizionale del rapporto fra i due”, dimostrandone “l’ambiguità e la specularità”.

Gli articoli del filologo spagnolo sono interessanti, e li ho letti d’un fiato. Mi limiterò a esporre alcune rapide osservazioni su quanto in essi appare più problematico.
Prima, però, affinché i lettori possano meglio orientarsi, trascrivo parte dell’impeccabile recensione di Piero Boitani sui rapporti rilevati dal filologo spagnolo fra Petrarca e Boccaccio.

Il secondo venera il primo, lo considera suo padre e maestro, ne ricopia le opere, risponde a ogni sua richiesta, assente ai suoi rimproveri, ne scrive la “Vita”, modella alcune sue opere su quelle dell’amico. Petrarca vuole certo bene a Boccaccio, s’intrattiene volentieri con lui. Però: dimentica di spedirgli lettere che gli ha scritto e che tutta Italia conosce prima del destinatario, non gli permette la lettura di sue opere se non in piccolissima parte, non gli invia che manoscritti di poco valore. Traduce, sì, in latino la storia di Griselda, l’ultima del “Decameron”, ma nella missiva con la quale l’accompagna tratta il libro con una sufficienza che rasenta la perfidia: «naturalmente non l’ho letto», «un libro per il volgo», «per di più in prosa», «così al di sotto delle mie preoccupazioni».
«Petrarca», scrive Rico, «amò molto Boccaccio, ma tutto fa pensare che lo rispettò poco. Lo amò perché ne apprezzava l’umanità, era sicuro della sua ammirazione e sapeva che avrebbe sempre potuto contare su di lui. Ma non lo rispettava troppo perché lo riteneva intellettualmente inferiore a lui  e aveva scarsa fiducia nel suo valore letterario …».
Alla sconfinata venerazione del Boccaccio Petrarca rispondeva con malizioso candore: «Come tu mi vuoi». Lasciava ai suoi domestici dieci fiorini ciascuno, al fratello Gherardo cento, all’amico Giovanni cinquanta: perché da vent’anni lo vedeva talvolta come un servitore talaltra come un fratello («minore e meno dotato»). E poi mostrando per una volta, nel suo testamento, un sense of humour in lui assente, affermava che i cinquanta fiorini dovevano – pur essendo «poco per un uomo così grande» (e cioè anche grasso) – servire all’acquisto di una «sopravveste invernale» (sarebbero bastati per un intero guardaroba) destinata allo «studio e le veglie notturne». Con bonaria malizia, non si sta insinuando che a Boccaccio conviene studiare molto?

Come si ricava da una rapida lettura dell’intera recensione e come afferma giustamente Francisco Rico nel Prologo, il quadro sui rapporti fra Boccaccio e Petrarca, disegnato con ingente “accumulo di materiali” e interpretato non sempre in maniere concordanti da due studiosi come Giuseppe Billanovich e Vittore Branca, “appare oggi alquanto tinto di rosa, con tonalità idilliche: i personaggi rappresentano troppo alla lettera i ruoli che sono stati loro assegnati, vanno troppo d’accordo, tutto scorre con troppa armonia, senza dissonanze…”.
Rico, senza dubbio, con il suo saggio è andato molto oltre e ora il quadro appare alquanto mutato, ma a mio parere si può essere d’accordo con il filologo spagnolo solo fino a un certo punto: se risulta in complesso accettabile la descrizione dell’atteggiamento del Petrarca verso il Boccaccio, atteggiamento che però sarebbe opportuno cercare di motivare meglio, le difficoltà maggiori vengono fuori quando si passa a delineare il contegno dimesso, arrendevole e quasi devoto del “novelliere” verso l’amico. Non metto in dubbio che il cosiddetto certaldese si sia comportato in questo modo: le sue lettere provano che era animato verso l’altro da innegabile spirito di ossequiosa ammirazione, testimoniato da aggettivi come illustris, venerabilis, sublimis.
Tuttavia non riesco a ritenere schiette e sincere le sue genuflessioni davanti all’amico. Lui nella maturità, durante il periodo passato fra Firenze e Certaldo sotto il nome di Giovanni Boccaccio e   l’appellativo che si era dato di Giovanni della Tranquillità, mirò a farsi passare come un uomo mite, umile e paziente, ma questo non era certo il carattere autentico di uno che fino al 1313 di nome vero si era chiamato Cecco Angiolieri.
Dopo il suo distacco da Siena (molto probabilmente riuscì a farsi credere morto), avvenuto nel 1313 in seguito a una condanna per eresia, morì come Cecco Angiolieri e rinacque in posti diversi celandosi sotto un numero infinito di pseudonimi per attuare in pace il suo piano letterario a sorpresa e a lungo termine che, una volta scoperto, dopo la sua morte avrebbe rivelato ai posteri tutta la sua grandezza, animata da intenso desiderio di vendetta e gloria. L’ultimo suo pseudonimo, il più longevo, fu proprio quello di Giovanni Boccaccio.
Dimesso, modesto e paziente non fu mai, consapevole del proprio genio: di fatto era iracondo, goloso, attaccabrighe. Tuttavia, dotato anche di un carattere giullaresco mediante il quale riusciva a calarsi nelle vesti di svariati personaggi, da bravo attore si occultò camaleonticamente dietro una folla di pseudonimi. Sotto i nomi di Esiodo e di Teognide amò descriversi mutevole e sfuggente come un polipo, e non aveva certo difficoltà a attingere da altri suoi pseudonimi come Aristofane, Plauto e Terenzio l’indole dei personaggi dietro i quali riteneva opportuno mimetizzarsi di volta in volta.
Il Petrarca, nonostante la sua intelligenza, si dovette lasciar influenzare troppo e ingannare dall’aspetto esteriore dell’amico con la pancia grossa come un otre, dal suo modo balbettante di parlare, dalla sua malattia della pelle, sgradevole per chi gli stava vicino.
Doveva certamente amarlo, ma non può averne compreso a fondo la natura e il valore artistico, se neanche si degna di leggere un’opera come il Decameron, adducendo ragioni discutibili che rasentano la perfidia, come si è visto. La sua sufficienza, che lo porta a ritenere quel libro degno del volgo, fa affiorare alla mente molti dubbi sul poeta di Laura: di certo doveva stimare poco l’amico Giovanni e Francesco Rico appare seguirlo in parte, quando scrive sul conto del “novelliere”: “Boccaccio aveva una formidabile capacità d’osservazione, intuizione e comunicazione, ma non possedeva, credo, un’intelligenza analitica”.
La frase, per quanto da me isolata dal contesto in cui si trova, appare un po’ discutibile.
Sono convinto che se un giorno lontano le mie ipotesi sulle letterature europee verranno accolte,  Rico ammetterà di essere andato troppo oltre: dietro quell’uomo goffo e privo di “intelligenza analitica” si celano Omero, Platone, Aristotele, Lucrezio, Virgilio, Seneca, san Girolamo, sant’Agostino e sant’Isidoro, per non ricordare l’autore finora anonimo del Poema del mio Cid, una delle maggiori glorie letterarie spagnole. Chi vuole saperne di più al riguardo, non ha che da leggere quanto ho scritto nei miei saggi sulle letterature classiche e medievali.
Semmai viene fatto di meravigliarsi come il Petrarca abbia potuto piegarsi a tradurre in latino l’ultima novella, quella di Griselda, del grande e sublime affresco di vita medievale che è il Decameron. Ho segnalato da tempo le prove evidenti che Cecco era stato bisessuale, soprattutto da giovane, e tale sua natura segreta è possibile vederla affiorare, per esempio, anche da sue opere come l’Iliade, i dialoghi platonici, l’Eneide, il Satyricon (Dante, per esempio, senza che ancora gli studiosi se ne siano accorti, lo condanna alle pene infernali come Ciacco, goloso, e Guglielmo Borsiere, sodomita). Tuttavia, quella che appare ancora più evidente da un numero molto fitto di opere è la sua misoginia. Fortemente misogina è anche la novella di Griselda. Ne ho parlato in un mio saggio del 2009 intitolato Il “Decameron” è di Cecco Angiolieri.
Ritengo opportuno trascriverne una mezza pagina:

… Il primogenito Gualtieri dei marchesi di Saluzzo è spinto contro sua voglia dai sudditi a sposarsi. Sceglie la figlia giovane e molto bella di poveri campagnoli, alla quale fa giurare prima delle nozze di mostrarsi sempre obbediente e remissiva.
La donna, Griselda, viene sottoposta dal marito alle prove più dolorose, come il distacco improvviso e violento dai figli, e umilianti, ripudiata e addirittura costretta ai lavori servili il giorno stesso delle nuove nozze di Gualtieri. Da ultimo la felicità improvvisa: la promessa sposa non è che la figlia a lei portata via anni prima e creduta uccisa, e invece allevata con il fratello da certi parenti. Gualtieri e Griselda vivranno a lungo felici e uniti da forte affetto.
Cecco non smette mai di sorprendere. Ci saremmo aspettati qualcosa di diverso come ultima
novella di questo affresco grande e splendido. Intorno a quell’isola beata infuria la peste e il tema che sembra stare più a cuore all’autore è il comportamento arrendevole e remissivo delle mogli verso i mariti. Dov’è la sua tanto decantata gioia di vivere e di narrare storie d’amore e di passione che cancellino tante immagini dolorose di morte?
La verità è che Cecco racconta le sue cento novelle quando ormai la peste non è più che un ricordo molto lontano, una cornice assai sfumata e labile. A lui preme, dopo tanta fatica spesa in questo lavoro così impegnativo sotto un nome non suo, legare l’ultima novella a un’altra sua opera cui tiene molto, il “De Amore”. Anch’essa va sotto il nome di un altro, Andrea Cappellano: Cecco è convinto che non solo l’omonimia di Gualtieri, ma anche l’argomento particolare farà sì che in futuro qualcuno riesca a collegare le due opere e a farle risalire al vero autore.
Risulta significativo che qui si faccia riferimento, del “De Amore”, proprio al terzo libro, un’aggiunta della tarda maturità attraverso la quale la donna e la moglie finiscano per apparire come un pericolo e una minaccia per chi, dedito alla saggezza, ama la vita senza tanti contrasti, liti e rampogne: basta leggere dal par. 20 in poi per rendersene conto.
Tornano alla mente anche l’ultima parte del “Trattatello” e certi passi del “Corbaccio”. Da Becchina fino alla moglie Ughetta, alla ignota e ben peggiore seconda moglie e alle altre compagne che deve avere avuto e che verranno fuori se davvero il Boccaccio altri non è che Cecco, sembra che dalle donne abbia ricavato solo guai, molti dei quali volutamente cercati.
Strana esistenza e strano destino i suoi: quando da giovane ebbe, lui dice per breve tempo, interessi amorosi di natura omosessuale, celebrava le donne come dee. Tornato nel solco della normalità, dovette accorgersi a sue spese che di ben altro si trattava, ma non poté mai farne a meno, anche se in teoria vincolato, come frate minore laico, alla vita casta. In questo deve aver preso dall’odiato padre Angioliero, e mai rinunciò alla sua natura segreta di patarino incallito, per l’amore di ciò, che come la donna, lega alla vita.

A mio parere, il brano porta a capire meglio come mai il Petrarca sia stato indotto a leggere e a tradurre in latino quest’ultima novella del Decameron.
Rico nell’articolo intitolato Il “Secretum” di Boccaccio, il più lungo del suo saggio, mira a dimostrare che, sebbene il poeta laureato abbia reso partecipe solo indirettamente l’amico sul  contenuto del proprio dialogo, il Corbaccio costituisca quasi il Secretum del certaldese (lo studioso non ha torto a vedere un legame anche anagrammatico fra Corbaccio e Boccaccio, ma su quest’opera interessante, in certi punti stilisticamente dura e talvolta perfino un po’ tediosa, conto di dire qualcosa di nuovo quanto prima, se riuscirò a superare certe difficoltà).
Insomma, per farla breve, senza stare a riassumere l’articolo complesso del bravo filologo spagnolo, il Petrarca, da quello che mi è parso di capire, dopo aver superato di una decina d’anni la metà della sua vita, durante e dopo la composizione del Secretum sarebbe incorso in una crisi di rigetto verso le passioni d’amore e la lussuria, nemiche delle muse. Da parte sua il Boccaccio, per rafforzarne il proposito, lo avrebbe spronato a leggere la novella più misogina del suo Decameron e a tradurla in latino, quasi per farla apprezzare maggiormente a uno come lui, prevenuto verso il volgare. Non basta: per fargli assumere una determinazione maggiore nella sua scelta di vita, compose un’opera in volgare di una misoginia impareggiabile come il Corbaccio.
Ho i miei dubbi che tutto questo sia servito a far mutare comportamento al Petrarca che allora, forse oltrepassati da un pezzo i cinquant’anni, era pur sempre dotato di una natura sanguigna e vitale, nonostante qualche acciacco.
Probabilmente Cecco-Boccaccio, se le mie congetture sono giuste, doveva aver già rinunciato alle gioie dell’amore: le non felici sue esperienze con le donne, in teoria l’obbligo di castità legato alla tonaca di frate minore laico francescano, ma soprattutto l’età avanzata (la sua data di nascita non può certo essere il 1313, l’anno della sua rinascita sotto falso nome, ma è molto probabile che si discosti di un poco da quella di Dante, che a mio parere doveva essere almeno dieci anni più vecchio di lui, e senza dubbio molto meno precoce come autore), avranno contribuito a fargli mettere l’animo in pace, se non proprio a raggiungere la pace dei sensi.
In questa non riesco a vedercelo, lui, il poeta dell’Archiloco e della Saffo dei codici, di Catullo, Properzio, Ovidio, del Fiore e dei Carmina Burana. Le sue opere di genere edificante e religioso come la Leggenda aurea e I fioretti di san Francesco saranno anche profondamente sincere, ma qualche dubbio sui buoni propositi del vecchio Cecco, contraddistinto da un’incessante e intensa attività letteraria animata da eterno spirito giovanile, non può non rimanere in chi lo conosca bene, senza che si arrivi a giudicarlo un ipocrita.
La sua vita terrena è caratterizzata dall’amore, in tutte le sue varie manifestazioni, anche mistiche. E dall’odio. Senza amore e odio per lui vivere non aveva senso: ce lo testimonia anche il suo prestanome Catullo, e neanche sarà da sottovalutarne la mentalità di vecchio patarino, che doveva agitarsi sempre nel profondo del suo essere.
In lui è presente anche un’altra contraddizione. Fa lodare la frugalità nel cibo da alcuni suoi pseudonimi (uno per esempio è Orazio), ma per tutta la vita non riuscì a liberarsi dalla pinguedine, limitandosi a lamentarsene: descrisse, rivivendolo in modo splendido e avvincente, il regime di vita essenziale di Antonio e di altri anacoreti e monaci, ma lui a tanto non si piegò mai, se non forse per breve tempo.
Una sola cosa mi rimane da aggiungere a questo articolo forse discutibile, che qualche polemica dovrebbe far nascere, se qualcuno si degnerà di leggerlo: tirate le somme, chi finisce per avere la peggio fra i due amici è il Petrarca, che tratta l’altro come un servitore e lo considera come un fratello meno dotato, intellettualmente inferiore a lui, ma non si accorge che è l’altro a condurre le danze in base a un piano freddo e ben calcolato.
Chissà quanti codici “autentici” della latinità quel “fratello meno dotato” gli avrà fatti acquistare a prezzi di favore e quanti altri gli avrà fatti inserire come doni negli scaffali della sua biblioteca, per avere la certezza che quei falsi costati tanto lavoro geniale non sarebbero andati perduti e per di più avrebbero ricevuto una valida autenticazione. Oggi quanto rimane della biblioteca del Petrarca è disperso in circa quindici città europee e statunitensi, e si tratta di una sessantina di opere in latino annotate pazientemente in margine con infinite postille che riguardano i temi e la lingua degli autori fasulli più amati dal poeta di Laura, vale a dire Virgilio, Cicerone, Orazio, Seneca, Plinio, Agostino, fino agli storici Livio, Sallustio e Svetonio.
Anni indietro Monica Berté pubblicò il migliaio di annotazioni presenti sui tre codici petrarcheschi di Svetonio oggi conservati a Berlino, Oxford e Parigi. Dalla lettura di tali note marginali possiamo vedere come lavorava il poeta aretino a quella che riteneva parte non piccola della sua gloria futura.
L’unica opera in volgare della sua biblioteca era una copia della Commedia regalatagli proprio dall’amico Boccaccio, per il quale il poema del suo nemico fiorentino rimase, quad vixit, una ferita perenne, un pensiero fisso ossessivo, con quelle condanne della propria vita peccaminosa in un’opera che sapeva destinata all’immortalità, e forse, per cercare invano di liberarsi da quella ferita e esorcizzare quel pensiero fisso, lavorò tanto a commentare e copiare il poema da lui in modo sprezzante definito teologico, al punto che quasi inconsapevolmente giunse a accettarlo come qualcosa di legato alla sua vita fuori dal comune, piena di luci e di ombre. In fondo se quel poema era destinato all’immortalità, parte del merito era stato anche suo: ma questo lo vedremo meglio in un articolo successivo.
Presto, infatti, conto di poter dire qualcosa di più preciso e concreto al riguardo, che porterà a capire molto meglio il misterioso percorso culturale di Dante e certe parti della Commedia su cui finora si è brancolato troppo, e Cecco uscirà finalmente da quanto ancora rimane della cortina fumogena dentro la quale si è celato con accortezza e genialità per attuare il suo piano a lungo termine.
Di recente, per esempio, ho scoperto che il Guido da Pisa della Declaratio super Comediam Dantis e il Bosone da Gubbio del Capitolo dantesco, pubblicato nel 1888 dal Roediger come Dichiarazione poetica dell’Inferno, altri non sono che pseudonimi di Cecco (insieme con antichi commentatori della Commedia come Benvenuto da Imola, il notaio Lanza e forse anche l’Ottimo).  Lo proverebbero in parte gli stessi nomi: Guido fa pensare a Guittone e Bosone sembrerebbe alludere in modo comicamente giullaresco a un invertito sessuale, come per un certo tempo Cecco era stato. Ma c’è anche da tenere presente il forte legame che unisce la Commedia a Virgilio, e il Virgilio di cui Dante conosce e ammira le opere, in fondo altri non è che un prestanome di Cecco, il quale così è venuto a trovarsi nel ruolo, senza dubbio singolare e forse a lui non molto gradito, di fare da guida nell’aldilà al suo nemico ignaro.
Alcune della notizie relative al Petrarca, riportate sopra, le ho riprese da una recensione di Matteo Motolese, apparsa molti anni fa sul Domenicale. Penso che la quasi totalità delle opere latine attribuite agli autori menzionati, su cui lavorò il cosiddetto padre dell’Umanesimo, abbiano avuto la medesima provenienza, e questo fa capire l’origine prima dei forti legami tra Francesco e Cecco. Quest’ultimo con una copia dell’Iliade fece il regalo più splendido all’amico che, privo di conoscenza della lingua greca, per primo in Italia poté leggere il grande poema nella traduzione in prosa latina di Leonzio Pilato, calabrese o greco dal nome un po’ strano, anche lui per me un personaggio prevalentemente di fantasia, un altro pseudonimo molto sospetto, e a un certo punto divenuto tanto scomodo per Cecco-Boccaccio da fare inventare al grande romanziere la notizia della sua morte avvenuta per naufragio nel 1363 durante il viaggio di ritorno a Costantinopoli.
Il Petrarca non arrivò a capire che dietro il donatore, quel curioso e goffo uomo grasso, si celava Omero redivivo, quello stesso che in un’altra occasione, riuscendo a non fargli passare per la mente alcun dubbio, deve averlo astutamente guidato a Verona a scoprire il codice pseudo-ciceroniano con la corrispondenza relativa a Attico, tanto da accrescere in lui l’illusione di essere un grande intenditore della letteratura latina, dal fiuto infallibile (si veda al riguardo il mio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa, Aracne 2011, p. 260).

A conti fatti il Petrarca si valutava troppo, e fino a oggi continua a essere sopravvalutato, nonostante il Canzoniere, ma quando si capirà che il suo capolavoro in volgare ha molti debiti in sospeso con Cecco e con i suoi numerosi pseudonimi, forse si cominceranno a spiegare, almeno in parte, molte cose, fra cui anche l’atteggiamento elusivo dell’aretino nei confronti dell’amico. Allora si troverà il coraggio di fare qualche ammissione su quella che è la più splendida e preziosa fra le tre Corone, e Dante e Petrarca nella graduatoria finiranno per trovarsi molto più in basso del grande giullare senese, goloso, collerico, falsario, bisessuale, balbettante e goffo, ma colto e geniale: senza di lui l’Europa, la sua civiltà e quella del mondo intero non sarebbero state quelle che sono.