Il punto della ricerca su Cecco.

Tiro le somme della mia ricerca su Cecco Angiolieri durata alcuni anni. Venendo al nòcciolo, a Dante rimarrebbe la sola “Commedia”, il Boccaccio perderebbe il “Decameron” e le opere minori più importanti.
Posso avere torto, ma a sostegno di tutto questo ho tirato in ballo stile, lingua e altri particolari non dappoco.
Ci sono di mezzo Dante e il Boccaccio, non Artemidoro, del cui papiro, ormai famoso, negli ultimi tempi si è fatto un gran parlare da due studiosi, Canfora e Settis, in netto contrasto fra loro. In fondo Artemidoro è un geografo, neanche tanto eccelso, e quel papiro, relativamente importante, finisce per incidere poco sulla letteratura greca che conta. Qui invece è in ballo la paternità di otto opere attribuite finora a Dante e quella di un grande capolavoro come il Decameron.
Porto a esempio le “Rime”, cui hanno lavorato filologi come Gianfranco Contini e Domenico De Robertis: se ho ragione a sostenere che in quel canzoniere non c’è neanche una composizione di mano del sommo poeta, molte cose in una futura edizione, se quella mia recente non è bastata, dovranno cambiare, e si vedrà allora che l’intento principale del grande poeta che ne è il vero autore risulta l’irrisione del suo nemico fiorentino.
Se si vuole andare avanti a difendere una tradizione secolare, si faccia pure. Il rischio è che alcune centinaia di filologi romanzi, italiani e stranieri, con tutta la loro cultura e le loro capacità tecniche, facciano una brutta figura davanti alle ipotesi di un aspirante filologo romanzo, che dalla filologia classica ha imparato a fidarsi poco del sapere costituito e della tradizione accolta passivamente.
Bisognerebbe che, da studiosi di valore come sono, cercassero di capire l’origine di tutta una serie di errori che hanno portato a confondere Dante con Cecco e a ritenere composto in fiorentino un gran numero di opere in poesia e in prosa, il cui substrato linguistico è senese.
Non mi trovo nemmeno d’accordo con il mio antico concittadino Girolamo Gigli, uomo geniale ma troppo fumino e arrabbiato, che nella prima metà del ‘700 si scagliava contro le pretese egemoniche del linguaggio fiorentino e soprattutto contro l’Accademia della Crusca che “… penalizzava da una parte l’uso vivo a favore dell’imitazione arcaizzante delle Tre Corone, dall’altra rimuoveva nelle citazioni sia gli scrittori che i rappresentanti della scuola senese “ (M.A. Grignani, introd. al Vocabolario Cateriniano, Firenze 2008, p.5).
Il Gigli poteva avere un po’ di ragione riguardo al linguaggio senese del suo tempo, escluso dall’uso vivo, ma non aveva capito, come non avevano capito i Cruscanti, che nelle citazioni delle Tre Corone e in quelle di tanti poeti e prosatori della letteratura italiana delle Origini, accanto a espressioni fiorentine c’era una miniera di senesismi.
Il punto cruciale è qui. Se i Cruscanti avessero cominciato a isolare molte parole e espressioni tutt’altro che fiorentine, piano piano avrebbero finito per capire meglio tante cose che davano per scontate.
Sono convinto che in passato e anche ai nostri tempi qualcuno, non proprio sprovveduto sui dialetti toscani antichi, certi dubbi deve averli avuti, ma non ha esitato a respingerli perché sarebbe stato costretto a scaricarli sulla paternità di opere sacre a autori di primo piano come Dante, Guinizzelli, Cavalcanti, Cino, Rustico, Davanzati, Monte Andrea, Dante da Maiano, Compiuta Donzella, Compagni, i Villani e molti altri nomi della grande tradizione culturale fiorentina.
Oggi abbiamo a disposizione opere altamente scientifiche sui dialetti toscani antichi, ma la loro influenza per la comprensione approfondita della letteratura delle origini finora è risultata marginale: si parla di dialetti nord-occidentali e sud-orientali, senza specificare bene che i poli linguistici maggiori sono quello fiorentino e quello senese, in pieno accordo con la realtà politica. Addirittura il secondo nel Due-Trecento ha un’importanza più accentuata, nonostante il peso della” Commedia” e nonostante la presenza, nella produzione sterminata di Cecco Angiolieri, anche di espressioni e vocaboli fiorentini. E non poteva essere altrimenti, dato che il senese a Firenze visse esule e scrisse per decine di anni sotto vari pseudonimi. Per esempio, un’ultima scoperta è il notaio Lancia. A questo punto sarà bene decidere se si vuole arrivare alla verità o continuare a difendere una tradizione secolare che comincia a fare acqua. Sarà una decisione scomoda per molti, ma non si può insistere a celarsi dietro gli errori del passato perché puntellano un’immagine tradizionale di Firenze e della sua cultura, basata su testi canonici dei più noti filologi romanzi italiani e stranieri, che stanno in piedi a fatica, dando i primi segni evidenti di cedimento.
Se si vorrà arrivare a qualche risultato concreto in una querelle come questa, una specie di questione omerica per la letteratura italiana, bisognerà smettere di fare ricorso a argomenti discutibili come l’impossibilità che Cecco abbia scritto tanto. Al di là dello stile e del lessico rimane l’arma dei codici, la maggior parte dei quali, se le mie ipotesi sono legittime, apprestati da Cecco stesso, abile come copista e nella preparazione del materiale scrittorio necessario, cui affida i suoi falsi, oltre agli spazi disponibili nei registri notarili di cui si serviva o che gli venivano sottomano.
Validi paleografi non dovrebbero trovare difficoltà a esaminare le scritture di tante opere finora attribuite a autori diversi, per me tutte riconducibili all’Angiolieri.
C’è da essere sicuri che qualcuno, o prima o poi, una ricerca nella direzione da me indicata la farà, e se risulterà che ho ragione, anche parzialmente, gli addetti ai lavori non ci faranno una bella figura. Da Nietzsche e dai miei maestri di filologia classica all’Università di Firenze ho imparato a leggere lentamente e a non prendere sempre le interpretazioni altrui come oro colato. Dalla papirologia ho imparato qualcosa di più, a rimuginare su passi e parole sospette per ore e ore, se non addirittura per giorni interi. In particolare, su opere come il “De vulgari”, la “Vita Nova”, il “Convivio”, e il “Trattatello” ho segnalato molte cose che in base all’interpretazione tradizionale non stanno in piedi.
In attesa di un confronto privo di pregiudizi e nella speranza che non passi qualche altro secolo, chi vuole rendersi meglio conto della faccenda può farlo leggendo  due recenti pubblicazioni che costituiscono il punto di arrivo della mia ricerca su Cecco Angiolieri:

CECCO ANGIOLIERI, Il “Fiore”, a c. di M. Stanghellini, Siena 2009, Ed. Il Leccio, 22 euro.
L’opera demolisce l’immagine tradizionale di Dante, svelando in lui un ipocrita opportunista e un denunziatore di eretici. La scoperta di otto falsi angioliereschi fra le opere dell’Alighieri sconvolge la letteratura italiana delle origini e mette in discussione il primato letterario del sommo poeta.

MENOTTI STANGHELLINI, Il “Decameron” è di Cecco Angiolieri, Siena 2009, Ed. Il Leccio, 14 euro.
Temi, lessico e stile lasciano pochi dubbi: l’autore del “Decameron” è Cecco, che diventa il più grande prosatore della letteratura italiana. Ora sta ai filologi dire chi era Giovanni Boccaccio.