Il “Decameron”, un capolavoro  in parte da scoprire.

Se dico che molte cose devono ancora essere capite nel Decameron, perché tuttora non se ne conosce il vero autore, vedo già parecchi specialisti e comuni lettori scuotere la testa.
Eppure, se è giusto quanto sostenni in un saggio nel 2009, vale a dire che Il “Decameron” è di Cecco Angiolieri, un’opera d’arte di tale grandezza e importanza non può essere interpretata e compresa a fondo senza che si conoscano bene le circostanze e i moventi che hanno portato il suo vero autore a comporre quello e altri capolavori.
Viene da pensare che finora i critici sul Decameron abbiano quasi fatto a gara per scrivere saggi interessanti che si leggono anche volentieri, ma che in molti casi (uno è, per esempio, costituito dalla prima novella della prima giornata, nella quale non si è capito che con ser Ciappelletto l’autore ha inteso senza tante ipocrisie parlare di sé stesso e della sua vita, specialmente di quella giovanile, tipica di uno che non era stato uno stinco di santo) non calzano con le vicende e le caratteristiche del suo prestanome Boccaccio e non riescono a mettere in luce gli intenti e i propositi del vero autore, finora rimasto ignoto.
Per dimostrarlo con un esempio, cercherò di analizzare l’articolo scritto da Laura Sanguineti White, nel primo numero del 2012 di Lettere Italiane, intitolato Le tentazioni di re Carlo: “Decameron” X, 6, dopo aver tratteggiato  il riassunto che della novella avevo dato nel mio saggio.
Al centro c’è Carlo I d’Angiò, il vincitore di Manfredi e Corradino, del quale Dante parla con sarcasmo, irridendone i difetti fisici e morali, soprattutto in Purg. XX, 67.
Nella novella si legge che il re Carlo durante il periodo estivo si autoinvita con quattro compagni alla bella villa solitaria con piscina (vivaio) che il ricco ghibellino Neri degli Uberti, esule fiorentino, si è fatta costruire a Castellammare di Stabia. Le vivande… dilicate e i vini… ottimi e preziosi rendono entusiasta il re, ma per lui, lussurioso per natura, il piatto migliore è costituito dalla comparsa in scena di due belle gemelle, forse quindicenni, figlie del padrone di casa: vestite di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, entrano nel vivaio e cominciano a pescare con piccole reti dei pesci che, fritti all’istante, servono per stuzzicare l’appetito dei commensali.
Ma il re guarda ben altro: quei veli di lino sottili non nascondono niente dei corpi acerbi di Ginevra la bella e di Isotta la bionda. L’innamoramento è istantaneo nel sovrano, che perde la testa e torna spesso alla villa, invischiandosi sempre più nelle panie amorose, al punto che vorrebbe prendere a forza, togliendole al padre, non solo Ginevra la bella, che predilige, ma anche Isotta la bionda. Meno male che il duca di Monfort riesce a riportarlo con i piedi per terra ricordandogli l’odio attiratosi da Manfredi con le violenze alle donne del suo regno: un re è grande se riesce a vincersi.
E allora Carlo, facendo violenza a sé stesso, le dota splendidamente e le dà in spose a due nobili cavalieri, ma il dolore è tanto grande, che si ritira in Puglia a macerarsi nel desiderio.
La Sanguineti White indugia abilmente su certi particolari di quella che la studiosa definisce “una piccola rappresentazione teatrale che segue un copione ben studiato, dalla rispettosa riverenza al re, all’immersione nell’acqua trasparente, ai precisi dettagli della cattura del pesce, alla sua cottura, e al lancio e al rimbalzo di esso sulle tavole degli ospiti che lo rilanciano… La pittura del nudo femminile, nella trasparenza dell’acqua, già presentata con realistica sensualità nella “Valle delle donne” (Decameron, concl. VI giorn.) e nel Ninfale fiesolano si ripete qui con accresciuto erotismo proprio per la presenza del vestimento candido e sottile che aderisce velando e svelando i corpi adolescenziali e per la presenza di un pubblico (maschile) rapito in sospesa ammirazione”.
La filologa continua soffermandosi in  particolare sulla “violenta accensione del monarca”, che “avviene secondo le regole dell’amor cortese”, sulla “successiva apparizione delle fanciulle, abbigliate in sottili vestimenti di seta”, che portando in tavola “due grandissimi piattelli d’argento”, pieni di “frutta stagionale, matura profumata e succosa”, offrono “un ulteriore stimolo ai sensi” e fanno pensare al “frutto proibito e agognato… che offerto, accettato e assaporato, porta alla biblica caduta e cacciata dall’Eden”.
Nel commento non manca un richiamo alla “valenza di simbolo cristologico” del pesce “e pertanto del salvifico itinerario che si conclude nel sacrificio che redime…”. “La ‘guarigione’ del re implica… l’allontanamento dall’ambiente edenico, dal giardino delle tentazioni e della caduta…”.
Non c’è dubbio, la Sanguineti White sa maneggiare bene la penna, scrive con abilità e gusto, quasi gareggiando con l’autore della novella, tuttavia non si accorge di rimanere alla buccia senza riuscire a distinguere il movente vero della narrazione.
Non dico che quello che scrive sia fuori luogo, ma il racconto deve celare qualcosa di più oltre all’intento preciso di mettere in evidenza lo sforzo compiuto dal re per vincere se medesimo fortemente,  Perciò, se  ho visto giusto nell’identificare in Cecco il vero autore, la studiosa e insieme a lei tutti i commentatori che l’hanno preceduta, ignorando la natura segreta dello scrittore e gli avvenimenti che l’hanno reso esule e costretto a vivere nascosto dietro tanti prestanome, non potevano arrivare al nòcciolo.
Scrivevo nel commento finale: “Se la novella è splendida e tanto piacevole a leggersi, c’è un motivo: Cecco si mostra più grande quando intende indirizzare il proprio risentimento contro qualcuno. E questo qualcuno, anche qui, non può essere che il solito… Dante, di cui non viene fatto il nome, ma che aleggia con la sua presenza silenziosa, per chi sa leggere e capire il senese, su tutta la novella. Mai Dante, assatanato per le ragazzine come Carlo il Nasuto, ha dato prova di saper vincere la propria lussuria sfrenata, come è riuscito a fare l’anziano e potente re, consigliato saggiamente dal duca Guido di Monfort”.
Credo che questa sia la cosa più importante che il senese tramite questo bel racconto abbia cercato di portarci a capire. Certamente si tratta di un’altra vendetta postuma contro il sommo poeta che, come si arriva a intuire dalla lettura del Fiore, ha denunciato il nemico Angiolieri come eretico patarino e nella Commedia, ritenendolo già morto, l’ha condannato nell’aldilà come goloso, sodomita e iracondo rispettivamente sotto le vesti di Ciacco, Guglielmo Borsiere e, forse, di Marco Lombardo. Per non dire dell’accusa di poeta superato e fallito, che Dante fa tirare in ballo proprio a uno pseudonimo di Cecco come Bonagiunta da Lucca.
Ma è anche necessario aggiungere che Cecco ha inteso contrapporre all’atteggiamento sarcastico e  irridente mostrato da Dante nel poema contro Carlo il Nasuto, il vincitore di Manfredi e Corradino di Svevia, capo riconosciuto dei guelfi italiani, la propria ammirazione per essere il re, un autocrate superbo e imperioso, riuscito a vincere se medesimo fortemente nelle proprie inclinazioni lussuriose verso le giovanissime, contrariamente a Dante, ipocrita poeta della rettitudine e dell’amore idealizzato.
Qualcuno a questo punto potrebbe obbiettare che sarebbe prima di tutto indispensabile dimostrare che il Boccaccio è uno pseudonimo di Cecco:  questo l’ho già fatto nel saggio sul Decameron  citato sopra e anche in articoli che si possono leggere nel mio sito internet.
Ma in questa stessa novella si possono trovare due addentellati importanti a questo proposito. Uno è costituito dai nomi delle due gemelle, Ginevra la bella e Isotta la bionda: i commentatori si limitano a dire che sono i nomi di famose eroine della narrazione cortese, mentre sono convinto che con questi Cecco abbia inteso alludere ai romanzi del ciclo bretone e arturiano da lui tradotti o rielaborati quando era giovane. Qualche critico ne ha parlato come di Rustichello da Pisa, ma anche costui altro non è che un ennesimo prestanome di Cecco, che gli ha attribuito la trascrizione del proprio Milione.
L’altro è la parola utel, per la quale risulta significativo riportare quanto da me annotato nello scritto sulla novella del re Carlo: “Vale la pena di soffermarsi sulla parola, presente al par. 6 nel significato di ‘piccolo vaso di terracotta invetriato dove si conserva l’olio’ (Quaglio). Lo conosco come un recipiente di latta nella classica forma con un beccuccio molto lungo e sottile: fino a qualche decina di anni indietro, nel senese era in tutte le case e veniva chiamato “utiello”. Se derivi dall’aggettivo “utile”, senesizzato in “utel” e presente in due passi di una canzone di Guittone (29, 58 e 177) o da qualche cos’altro (forse “untiello”), non lo so. So che a Siena è sempre stato chiamato così e “utiello” si incontra più volte nelle commedie popolari senesi del ‘500.
Nelle fonti letterarie e documentarie fiorentine non se ne trovano esempi, almeno a stare ai lessici elettronici: la Crusca l’ha codificato in “utel” comportandosi, se non altro, in modo molto sbrigativo.
Osservato sotto questa visuale, il Decameron aprirà da qui in avanti ai lettori alcuni suoi segreti, tali da far scaturire certe novità che contribuiranno a accrescere maggiormente il fascino del più grande romanzo apparso sulla faccia della terra, in cui il Boccaccio e Certaldo c’entrano come Marco Polo e Venezia nel Milione.
Giovanni Boccaccio nasce da Cecco Angiolieri e dagli sconvolgimenti della peste nera, che permisero al senese di creare quasi dal nulla in modo geniale la figura del più grande pseudonimo suo contemporaneo.