Il cavallo di Troia era Enea.

Luciano Canfora su LA LETTURA del “Corriere della Sera” (20 aprile 2014), con un articolo intitolato Il cavallo di Troia era Enea, ha recensito l’edizione della Storia della distruzione di Troia “di un simpatico falsario (forse databile all’inizio della nostra era) che si celò dietro il nome di Darete Frigio, sacerdote di Efesto e padre di due combattenti troiani sgominati dal greco Diomede all’inizio del V libro dell’Iliade…”.
L’opera, giunta fino a noi in una versione latina (Daretis Phrygii De excidio Troiae historia), di cui fa cenno per primo “un altro celebre falsario, Tolomeo Chenno (I sec. d.C.), citata per la prima volta da Isidoro di Siviglia (IV sec. d.C.) e forse nata non molto prima”, ebbe grande successo nel Medioevo latino “a giudicare dai molti manoscritti del X secolo. Nel XIII secolo fa capolino addirittura una versione più ampia, scoperta da Courtney nel 1955. Ora, per Castelvecchi editore, l’opera appare ritradotta con brillantezza e qua e là compendiata da Luca Canali (Storia della distruzione di Troia); segue un ottimo corredo di note a cura di Nicoletta Canzi… L’originalità del libro di Darete… consiste nell’andare controcorrente rispetto alla tradizione”.
Fatta qualche citazione necessaria, cercherò di riassumere nel modo più breve possibile la recensione di Canfora: per Darete i torti maggiori sono dei greci, responsabili di una prima devastazione di Troia. Priamo è felice di ospitare a corte Elena dalle belle gambe. Darete ritrae numerosi altri personaggi famosi: Briseide, “deliziosa ma pudica”, Andromaca, “alta, casta, ma gradevole”, Cassandra “di statura media e bocca alquanto rotonda”, Polìssena, “la più attraente di tutte le sorelle e di tutte le amiche”, Ettore, strabico e balbuziente, Neottòlemo, figlio di Achille, anche lui balbuziente, Agamennone buono e saggio, Menelao, un mediocre.
Priamo, bellicista, persiste a tirare per le lunghe una guerra ormai persa. Enea da parte sua, con l’aiuto del padre e di Antenore, tradisce e apre le porte al nemico, in combutta con Sinone e Agamennone. Il famoso cavallo di legno viene ridotto a una protome equina scolpita sulle porte Scee, attraverso le quali Enea fa passare i greci. Occupata la città, Agamennone concede a Enea la salvezza di Ecuba e di Elena, ma impone al troiano di andarsene via in cerca di un’altra terra.
L’intento parodico fa pensare alla Storia vera di Luciano di Samosata, scrittore molto sospetto.
Mi fermo qui: ce n’è già abbastanza per cercare di orizzontarsi un po’ meglio in “questo strano racconto”.
A mio parere il Darete che l’ha composto è un altro pseudonimo di Cecco Angiolieri, il vero autore dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide a noi note.
Se ho ragione, è errato far risalire al X secolo i molti manoscritti in cui è contenuta la Storia della distruzione di Troia, come è errato attribuire al VI secolo le opere di Isidoro di Siviglia, perché tutte altro non sono che falsi del senese in base a quanto ho sostenuto nel saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa, Aracne editr. 2011, pp. 227-230. Spetterà ai paleografi controllare meglio il lavoro svolto in passato. Ma c’è da tenere presente che anche lo stesso Luciano di Samosata, autore della Storia vera, è un altro prestanome di Cecco. Ne ho parlato nel mio Omero è nato a Siena, Betti editr. 2011, pp. 112-115.
Uno strano giullare colto senese, goffo e grasso, si è insinuato nelle letterature europee che vanno da Omero fino al tempo del cosiddetto Boccaccio, ricreando le opere dell’antichità classica e altomedievale scomparse durante il periodo delle invasioni barbariche e dei secoli bui a esse susseguiti, e successivamente divertendosi a irridere i due poemi epici greci mediante i quali si è attribuito l’appellativo di poeta sovrano in chiara polemica contro il suo alunno Dante, divenutogli nemico. L’irrisione non è certo casuale e gratuita: è un ennesimo segnale che Cecco ha lanciato per portare qualcuno dei posteri più accorto alla scoperta del suo piano letterario.
Così ha fatto anche con l’Eneide servendosi di una semispecie di antologia filosofica in sette libri un po’ mutili del suo alter ego Macrobio: lì non è strano che un personaggio di nome Evangelo, “nome dal quale appare fare capolino il bastian contrario e giullare Angiolieri, parli molto male del poeta latino, l’opera del quale è a suo giudizio piena di strafalcioni e degna di essere data alle fiamme”. Macrobio-Evangelo e Darete Frigio sono fratelli di latte, figli del grande giullare colto senese.
La frase citata sopra è tratta dal mio recente saggio intitolato L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angiolieri, ilmiolibro.it, Siena 2014, pp. 48-49.
Le mie congetture potranno far discutere, se qualcuno si degnerà di parlarne: però, spiegando così la faccenda, torna tutto in base al piano letterario di Cecco, dietro il quale si cela, per esempio, anche l’Eumolpo del Satyricon, capace di comporre poemi immortali con rapidità, grande genio e abilità artistica e successivamente di riderci sopra alterandone la trama.
L’Angiolieri lavora duramente a ricreare i poemi di Omero e di Virgilio, e subito dopo si diverte a irriderli, scompigliarli e distruggerli tramite i suoi prestanome, con il sorriso sulle labbra, come ho sostenuto nelle pagine del saggio appena citato. Se le cose stanno così, la tecnica paleografica ne riceverebbe un brutto colpo.
Che la mano sia quella del giullare Cecco ce lo dicono molti particolari di vario genere: uno viene fuori dal vezzo di attribuire a personaggi dell’epica, come l’eroe Ettore e il figlio di Achille Neottolemo, la balbuzie, un difetto fisico proprio del senese, che non ha esitato a appiopparlo anche a Esopo, Alcibiade, Demostene, all’imperatore Claudio e al monaco medievale Beda, una grande gloria letteraria medievale degli inglesi, un po’ difettosa perché anch’essa risulta spuria, come ho sostenuto nel saggio La grandezza di Cecco…, già citato.
Semmai ci si potrebbe domandare perché il senese ha fatto un traditore di Enea, un troiano, una vittima dei greci tanto odiati, ingannatori e violenti. Ma anche il pio Enea una colpa ai suoi occhi ce l’ha: ha dato inizio, seppure spinto dalla volontà del fato, a quello che diverrà l’impero di Roma, basato sulla brama di potenza e di ricchezza, e per questo merita una punizione, che Cecco non esita a attuare, ma lo fa senza infierire troppo su uno dei suoi personaggi di maggior successo, da lui molto amato, con il sorriso a fior di labbra.
A guardare bene la vastità dell’impero di Roma, sapientemente organizzato e strutturato, è destinata dalla provvidenza divina a favorire la diffusione del cristianesimo, e il senese attraverso i suoi prestanome lo mette più volte in rilievo. Così si riesce a capire meglio anche il significato che il poeta ha inteso assegnare alla parola “pio”, spesso legata al nome di Enea.
Tuttavia si potrebbe perfino arrivare a pensare che Cecco, bistrattando Enea, finga comicamente di avercela fina con il creatore dell’eroe troiano, il suo alter ego Virgilio, autore di un poema che sarebbe pieno di strafalcioni e degno di essere dato alle fiamme.
Ma soprattutto il cosiddetto mantovano sarebbe colpevole per aver fatto da guida compiacente al viaggio ultraterreno di Dante, che nel mondo dei morti raffigura il suo maestro senese come peccatore goloso e sodomita (e anche questo finora nessuno l’aveva capito) nei personaggi di Ciacco e di Brunetto Latini, neppure esitando sprezzantemente a definirlo un poeta superato quando, nel canto XXIV del Purgatorio, coll’intento mettere in risalto la propria concezione stilnovistica della poesia e insieme soprattutto denunciare la falsità della Vita nova, fa parlare di Cecco-Guittone una controfigura del senese come il notaio Bonagiunta da Lucca. E nel canto XXVI tirerà in ballo Guido Guinizzelli, presunto padre dello stilnovo, un poeta fantasma di cui non c’è rimasto niente o quasi di originale.
Il canzoniere a lui attribuito sarebbe farina di Cecco. Il senese, loico e vendicativo, tramite quello mira a colpire il suo alunno fiorentino, ora divenutogli nemico, il quale atteggiandosi a giudice dei suoi simili ha messo Guido fra i lussuriosi del Purgatorio, riservando per sé la visione di Dio.
Cecco, sotto le false vesti del Guinizzelli, nel bel sonetto 11 del canzoniere attribuito al cosiddetto padre dello stilnovo, esprime con vigore il desiderio di baciare la bocca, il bel viso e gli occhi della bambina Lucia, ma subito dopo finge comicamente di pentirsene in atto di deferenza verso Dante, lussurioso cacciatore di giovanissime: al v. 5 ho congetturato la parola senese citolina, bambina, ragazzina, al posto di sirolina dei codici e di sì lorina di Gianfranco Contini, che hanno poco senso.
Che il bersaglio sia Dante ce lo dice la terzina finale del sonetto, di cui trascrivo la mia parafrasi. Dice il falso Guinizzelli: Ma di ciò mi pento, perché ho pensato che questo mio modo d’agire potrebbe recare dispiacere, e non poco, a qualcuno che conosco io.
Chi volesse rendersi meglio conto di queste congetture, può leggere il mio articolo intitolato La canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore” demolisce l’autenticità della “Vita nova”, che fa parte del saggio Risolta la questione omerica, Betti editr., Siena 2012, e anche la mia Introduzione a Le rime di Dante Alighieri (ilmiolibro.it, Siena 2014), il cui vero autore non è certo Dante ma Cecco.