I misteriosi acrostici dell’Odissea e le fave di Pitagora.

Ho ritrovato un ritaglio di giornale di alcuni anni fa, sul quale non avevo appuntato la data.
Parla di una scoperta “che se confermata sarebbe eccezionale”, fatta dal professor Franco Mosino, filologo e grecista calabrese che per dieci anni ha studiato i testi attribuiti a Omero.
Trascrivo quanto mi è sembrato più importante: «La novità che in 2700 anni nessuno aveva mai visto sono degli acrostici, cioè scritture verticali che si trovano all’inizio e alla fine dei canti e che si riferiscono al contesto della vicenda narrata», spiega Mosino, che porta un esempio: «nell’Odissea, quando si racconta dell’incontro tra Ulisse e Penelope dopo la guerra e il viaggio di ritorno del protagonista c’è l’acronimo “ama” (alfa-mi-alfa) che in greco significa insieme».
Ma l’acrostico più importante secondo il professore si troverebbe all’inizio del poema, là dove si legge «appa». Potrebbe essere una sorta di sigillo all’opera. Mosino è convinto che Iliade e Odissea siano stati scritti da autori diversi e che l’autore delle vicende di Ulisse sia proprio chi si firma «appa». La firma all’interno dei poemi era, ricorda lo studioso, una pratica diffusa.

Sono andato a leggere su internet il curriculum del professor Mosino: confesso che mi sono vergognato. Tutti e due siamo nati nel 1932, forse l’anno più nero della grande depressione economica per l’Italia nel secolo scorso. Nel 1952, quando Mosino si laureò in lettere antiche, come si diceva allora, all’università di Firenze, io ero sempre al liceo a combattere la mia lunga battaglia contro le formule di prostaferesi e le materie scientifiche. L’anno dopo finalmente riuscìi a superare la maturità. All’università me la presi comoda e solo nel 1958 mi laureai in papirologia greca.
Questo dice molto sulle mie non eccelse doti di studente. E neanche molto migliore è stata la mia carriera, se si può chiamare così, come insegnante di scuola media inferiore. La scuola non mi è mai piaciuta, e mi accorsi troppo tardi di essere negato all’insegnamento.
Appena mi fu possibile scappai, quasi come avevo fatto il primo giorno alle elementari, e una volta libero, studiando e pubblicando commedie popolari del Cinquecento in senese antico, sono arrivato a scoprire che nella letteratura italiana delle origini è presente una questione dantesca ignorata da tutti gli specialisti. Di lì sono passato a un’altra questione importante come quella omerica. Forse mi illudo, ma penso di averle risolte tutte e due.
Nel frattempo Franco Mosino, valido e appassionato insegnante di lingue classiche in licei e università, ha scritto un sacco di pubblicazioni di vario genere.
Nel 2013 si è presentato addirittura candidato al premio Nobel per la letteratura con cinque volumi di saggi sulla questione omerica, ma ha battuto nel canapo, come si dice nella Siena paliesca: ha ragione Mosino a sostenere polemicamente che dal 1902, quando fu premiato Teodoro Mommsen, in Svezia non si dà un alto riconoscimento alla saggistica letteraria, negli ultimi anni entrata dappertutto in forte crisi, particolarmente in Italia.
E questo è male: si sono privilegiati romanzi vari e poesie e si è lasciato immutato l’assetto di tutta la letteratura europea da Omero fino al Boccaccio, a mio parere reso molto traballante da un numero considerevole di falsi due-trecenteschi.
Un tentativo potrei farlo anch’io per il premio Nobel, ma poi ho pensato che, se mi andasse bene, pur non odiando la ricchezza come il patarino e comunista Cecco-Platone, tutti quei soldi finirei per sperperarli giocando in Borsa. Eppoi non riuscirei neanche a trovare un paio di filologi di chiara fama che presentassero i miei saggi: li ho tutti contro e mi danno del matto.
Anche Mosino è convinto di aver risolto la questione omerica. La punta di diamante della sua ricerca è costituita, come si è già visto, dagli acrostici, scritte verticali. Per lo studioso è dubbia la paternità di Omero come autore dell’Iliade, mentre a comporre l’Odissea sarebbe stato un calabrese, anzi un reggino: lo dimostrerebbero l’ambientazione delle avventure di Ulisse nello Stretto di Messina e tradizioni come l’uso di cucinare il maiale infarinato e di pescare mediante un nervo bovino, come si fa ancora oggi nella riva calabrese dello stretto.
Cerco di spiegare perché ho scritto questa pappardella mettendo bocca indebitamente negli studi del prossimo. Io, che sono stato molto preciso e scrupoloso indicando nome e cognome di quello che è per me il falsario autore dei poemi cosiddetti omerici, vissuto fra Duecento e Trecento, vale a dire il senese Cecco Angiolieri, alias Giovanni Boccaccio, mi sono accorto che l’autore ha lasciato la sua firma criptata anche in altri suoi innumerevoli falsi, oltre che nell’Odissea.
Mi proverò a spiegare la faccenda nella speranza che una convergenza significativa, derivante da ricerche indipendenti l’una dall’altra, porti a qualcosa che possa rivelarsi importante per la soluzione della questione letteraria più ardua e complessa cui abbiano lavorato per secoli i più accreditati filologi del mondo occidentale, facendo solo tanti buchi nell’acqua.
Non starò a spiegare per filo e per segno il percorso della mia ricerca iniziata più di otto anni fa: chi voglia rendersene meglio conto non ha che da leggere qualche articolo del mio sito internet, se non vuole perdere troppo tempo con i miei saggi più recenti, all’ultimo dei quali ho dato un titolo che dovrebbe mettere un po’ in apprensione quanti hanno a cuore per motivi vari la grande cultura europea del passato: L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angiolieri.
Nessuno al riguardo ha detto finora né ai né bai. Prima che in segno di protesta mi ritiri a vivere da eremita in una capannuccia o in un anfratto del deserto siriano, come fece a suo tempo Cecco-Gerolamo, dove non avrò bisogno di aspettare a lungo la fine, vista la pericolosità attuale del luogo, voglio segnalare qualcosa al coetaneo Mosino che potrebbe essergli utile per mettere meglio a fuoco le sue scoperte degli acrostici misteriosi.
Non starò a indicare quelli che per me sono gli innumerevoli falsi di Cecco in cui si trova la parola “appa” o “abba”, che vorrebbe dire “padre”, passato al significato di “abate”, vale a dire “padre spirituale” di anacoreti e monaci. Non ho segnato i passi precisi perché procedo in fretta nelle letture, essendo il mio campo di indagine molto vasto, e solo ora, dopo aver riletto con attenzione quel ritaglio di giornale, mi sono accorto dell’importanza che in Cecco assume la parola, divenuta un segnale distintivo, tramite anche il quale il falsario senese ha cercato di portare i lettori a scoprire il suo imponente piano letterario criptato.
Franco Mosino, che ha senza dubbio capacità e abilità superiori alle mie in simili ricerche, ci metterà poco a avere davanti a sé il quadro della situazione e a rendersi conto se ho preso lucciole per lanterne. Sarà necessario rifarsi, fra tante altre, alle opere di Sinesio, Gerolamo, Agostino, Gregorio di Nissa, il monaco Siro, Eucherio di Lione, Rodolfo il Glabro, Isidoro di Siviglia, Iacopo da Varagine, e a numerosi autori di opere devote e di storia ecclesiastica, tutti prestanome di Cecco, ma non sono da escludere neanche i poemi finora adespoti Beowulf, Nibelunghi, Chanson de Roland, Poema de mio Cid, Digenìs Akrìtas, quest’ultimo considerato il poema nazionale dei greci moderni, e quel grande capolavoro intitolato Carmina Burana, del quale, come anche dei cinque poemi citati, sarebbe ormai tempo di fissare la paternità.
L’autore che ha lavorato non poco su quelle opere fondamentali per la cultura europea, pur false che siano, non poteva essere tanto disinteressato alla sua gloria da fare di tutto perché il suo nome rimanesse avvolto nell’ombra in aeternum. Di segnali ne ha lasciati parecchi, ma gli specialisti non hanno saputo interpretarli.
Porto come esempio l’ultimo verso della Chanson de Roland: Ci falt la geste que Turoldus declinet (“La gesta scritta qui da Turoldo ha fine”, traduce Renzo Lo Cascio). Come ho sostenuto nel saggio Omero è nato a Siena, Turoldo potrebbe essere l’autore o solo il rimaneggiatore, il traduttore, il copista di un’opera preesistente.
Per scegliere bene tra queste congetture mi sono rifatto al verbo latino declinare, che nel Cicerone del Laelius de amicitia e nell’Aulo Gellio delle Noctes Atticae, due altri falsi di Cecco, assume il significato di “deviare”, “allontanarsi da”, “fare digressioni”.
L’autore vero, a mio parere servendosi di una chanson preesistente, forse molto breve e non necessariamente scritta, ne ha ricavato un capolavoro, di cui i francesi si fanno vanto, un po’ diverso dalla composizione da cui molto probabilmente ha preso lo spunto. Arnaldo Roncaglia ha parlato di un Turoldo monaco di Fécamp, che poi sarebbe stato anche abate di Malmesbury. La coincidenza interessante per me è che lo stesso Cecco, sotto lo pseudonimo di Guglielmo di Malmesbury avrebbe composto un falso intitolato Gesta regum Anglorum.
Ho avanzato inoltre l’ipotesi che Turoldo potrebbe derivare da Tura, Ventura, un nome frequente in Toscana nel Medioevo. Agnolo di Tura del Grasso è un cronista senese sotto il quale ho individuato lo stesso Cecco: Agnolo porta a Angiolieri e l’adiposità era una caratteristica fisica del senese. Fra l’altro Agnolo di Tura ci ha lasciato una potente descrizione della peste nera  che fece il vuoto fra gli abitanti di Siena. Ubi pestis, ibi Ceccus.
In un antro situato vicino al Cairo, nel primo Novecento si scoprirono rotoli di opere attribuite a Orìgene, da una delle quali si è addirittura ricavato il testo di un’opera singolare e di notevole importanza, andata perduta, del pagano Celso, fiero nemico del cristianesimo.
Cecco, afflitto da una malattia della pelle simile alla scabbia e misantropo come il suo personaggio indimenticabile di Timone, deve essere vissuto a lungo in quella cavità, tuttora chiamata la Grotta di Tura, che porta a pensare non casualmente all’antro di Polifemo, alla famosa caverna del mito platonico, all’anfratto sul mare dove Demostene fra il fragore delle onde declamava a alta voce, per liberarsi dei suoi difetti di pronuncia e della balbuzie, e all’antro dell’isola di Lemno dove viveva in solitudine il personaggio cecco-sofocleo Filottete, per non tormentare i propri simili con il fetore di una sua ferita purulenta e con le proprie grida di dolore.
Le opere del teologo Orìgene a mio parere altro non sono che falsi di Cecco, composti nel periodo dal senese passato in Egitto per informarsi in loco anche intorno a altre cose, di cui avrebbe fatto scrivere il suo pseudonimo Erodoto. Si veda al riguardo il mio Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto…(ilmiolibro.it, Siena 2013, pp. 95-96). Anche quella costituita dal nome Turoldo è una firma criptata simile all’altra delle parole “appa”, “abba”, “abbas”, disseminate da Cecco in alcune sue opere.
Forse, a tale proposito, l’esempio più calzante l’ho trovato nel Poema de mio Cid, misto di catalano, galiziano-portoghese e castigliano. In Spagna, siccome viene considerato il primo documento letterario nazionale, non si contano gli studi sul poema dalla sua prima edizione a stampa risalente al XVIII secolo. Per i tradizionalisti sarebbe il prodotto di una lunga tradizione popolare trasmesso oralmente da giullari. Uno di questi studiosi, il più autorevole, cui si deve la prima edizione critica dell’opera, Ramòn Menéndez Pidal, ha riconosciuto in esso addirittura la mano di due diversi giullari anonimi del XII secolo.
Invece per gli individualisti alla base dell’opera ci sarebbe un autore colto, Per Abbat, nome che compare nel manoscritto di Madrid, ritenuto invece un semplice amanuense dai  neo-tradizionalisti.
La cosa è piuttosto interessante: viene fuori l’autore, un abate di nome Pietro. A mio parere la soluzione potrebbe essere a portata di mano.
Ci sarebbe di mezzo la storia d’amore di Pietro Abelardo e di Eloisa, ritenuta da molti studiosi la più bella di tutti i tempi. Riassumendola non vorrei annoiare i lettori, molti dei quali saranno meglio informati di me al riguardo. Chi volesse conoscere le novità che mi è sembrato di scoprire sulla faccenda, può leggere le quattordici pagine da me scritte nell’articolo intitolato “Il grande falso della storia d’amore di Abelardo e Eloisa”, contenuto nel saggio Da grovigli di falsi…, citato poco sopra.
Historia calamitatum mearum si intitola questo capolavoro, un romanzo epistolare in latino che sarebbe stato composto da Pietro Abelardo, un grande intellettuale, un chierico, insegnante universitario francese, filosofo e teologo, vissuto nel XII secolo.
Uno studioso inglese ha scritto: “Non soltanto Eloisa e Abelardo, ma lo stesso secolo XII cambiano d’aspetto secondo che si ammetta o si neghi l’autenticità di questo importante documento”. Per me si tratta di un falso di Cecco fra i più evidenti, nonostante l’opinione opposta di quasi tutti gli specialisti del nostro tempo.
Sintetizzo la vicenda: Abelardo, brillante magister con un seguito di numerosi alunni di tutta Europa, vivendo a Parigi nella casa di un canonico di Notre Dame, si innamora della sua bellissima figlia Eloisa, diciassettenne. Eloisa rimane incinta. Nasce un figlio cui viene messo il nome di Astrolabio. I parenti imbestialiti evirano Abelardo e fanno prendere i voti alla ragazza.
Abelardo riprende l’insegnamento, ma dopo non molto finisce per rifugiarsi nel monastero di Saint Gildas, di cui diviene abate. Del nome Gildas ho parlato su questa stessa rivista nel numero di gennaio 2015 in un articolo intorno alle opere altomedievali latine relative all’Inghilterra.
I due amanti, senza essersi più rivisti dopo la loro separazione, tengono solo rapporti epistolari. Il chiostro è per lei e per lui salvezza, purezza di vita libera dal peccato. Tuttavia chi si rassegna più a stento appare la donna, colta e sensibile. Il suo nome, nella variante Elissa, sorella dell’abbandonata Didone, figura anche nel poema medievale intitolato Eneide, e non è una coincidenza casuale.
La storia ha dei risvolti talvolta anche un po’ comici, quali si trovano in tanti scritti di Cecco. Viene da ridere quando si legge che lo sfortunato filosofo è nato a Le Pallet, che abbia insegnato a Corbeil e che suo figlio Astrolabio, il figlio del peccato, porti il nome di uno strumento collegato alle stelle.
A Abelardo è toccata una sorte simile a quella di Orìgene, il grande teologo gnostico, vissuto in Egitto nel II sec. d.C., anche lui un po’ eretico come Cecco. Di diverso c’è che l’egiziano si evirò con le proprie mani per liberarsi dalla tirannia della carne e dei sensi.
Abelardo a un certo punto si rifugerà a Cluny, in Borgogna, per liberarsi dell’ostilità dei monaci di Saint Gildas a lui avversi perché troppo legati alla vita corrotta da cui il loro padre spirituale avrebbe voluto distoglierli. Finirà i suoi giorni ospite nell’abbazia splendida, gloria della cristianità.
Cecco tramite la novella famosa di Ghino di Tacco e dell’abate di Clignì, presente nel  Decameron, a mio parere ci ha lasciato un altro segnale, nel suo solito modo criptico, quasi volendo indicarci che un legame non poi tanto sottile unisca Decameron e Historia calamitatum, e anche l’Eneide.
Ho scritto nel mio articolo, con un’aggiunta recente: Sia più o meno reale la trama del romanzo epistolare, alla luce della novella decameroniana l’autore esprime ben altro che riconoscenza verso l’istituzione cluniacense. Qui a Cecco, nascondendosi dietro il bandito gentiluomo che cura con una dieta a base di pane, fave secche e Vernaccia di San Gimignano i mali fisici del grasso abate di Clignì, dovuti ai bagordi, premeva soprattutto di far arrivare i lettori alla propria vera identità di scrittore.
Anche quello delle fave è un segnale di cui frequentemente il senese si è servito nei suoi falsi in latino, quando parla dei pitagorici che in base a un precetto del loro maestro si astenevano dal cibarsene. Ho capito meglio il vero significato di tutto questo quando, pochi mesi indietro, occupandomi delle novelle di Gentile Sermini, ho scoperto che dietro il novelliere si cela Cecco-Boccaccio, autore sotto quello pseudonimo di un bel Decameron senese. Ne ho parlato nel saggio già citato sull’Umanesimo alla p. 67. Trascrivo il passo relativo alle fave:

Nella nov. XVI, par. 3, ser Pace dice al servo Masetto di comprare dieci libbre di pesce e “di mettere in mollo delle fave”, perché il giorno dopo sarebbero venuti a pranzo quattro preti, ma solo poche di quelle, “non essendo esse molto vivanda da preti”.
Qui Cecco, come fa spesso nelle opere attribuite ai suoi pseudonimi latini, “in primis” Cicerone, con un’evidente allusione gioca sul divieto che sarebbe stato imposto da Pitagora ai suoi seguaci di  di mangiare le fave, cibo in chiave comica ritenuto troppo caloroso e sessualmente eccitante dal giullare colto senese, come appare chiaro da questo passo.

Se Franco Mosino, quando avrà a disposizione il materiale, si accorgerà che le due ricerche unite hanno le carte in regola per affrontare il difficile agone di Stoccolma, potremmo fondare una semispecie di start-up letteraria.
A lui, però, più esperto e meglio introdotto nel milieu letterario italiano e straniero, toccherà la maggior parte del lavoro che resta da fare. Se andrà bene, io, che amo viaggiare quanto i cani le frustate, come direbbe Cecco, aspetterò fiducioso che il mio socio al suo ritorno dalla Svezia, passando per la via Francigena, si fermi a Siena. La gloria, se verrà, tanto meglio, ma mi contenterei anche di quella postuma. Per ora mi interesserebbe di più la metà del malloppo.
A Einstein parte del premio svedese servì per le spese del sospirato divorzio. L’idea mi sembra buona. Non sono un genio come lui, ma vorrei passare a modo mio quel poco che mi resta da vivere.

Quest’articolo è stato pubblicato sul periodico “Le Antiche Dogane” nell’aprile 2015