Sul “Giornale” del 27 marzo 2014 ho letto che Pietrangelo Buttafuoco ha scritto con l’attore Edoardo Sylos Labini una piéce su Nerone, che dovrebbe essere andata in scena nell’ottobre successivo al teatro Manzoni di Milano.
Niente a questo mondo è statico e fisso: anche la storia è in continua evoluzione perché in ogni epoca si analizza il passato da punti di osservazione in perenne spostamento. Ma tutto questo ha un limite: è valido purché i documenti in nostro possesso siano autentici.
Quando, come nell’articolo già citato e in altri scritti, si vede in Nerone un imperatore infangato dalla storiografia ufficiale che lo accusò di aver messo a fuoco Roma e perseguitato i cristiani, mentre di fatto egli rivoluzionò le arti sceniche, abbassò le imposte al popolo, tolse potere all’oligarchia e combatté contro i senatori lobbisti, quando si ammette che perfino il suo maestro Seneca congiurò contro di lui, bisognerebbe dimostrare l’attendibiltà delle fonti da cui si sono attinte tali notizie.
Dei problemi legati agli scritti di autori del periodo che va da Nerone fino a Traiano ho parlato a lungo nel saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa (Aracne editr., 2011, pp. 201-205): non ne è uscita molto bene l’autenticità delle opere attribuite non solo a Quintiliano e ai due Plinii, ma anche a Seneca e a uno storico come Tacito.
Un certo interesse ha destato di recente il saggio di Massimo Fini intitolato Nerone. Duemila anni di calunnie. Sostiene Fini che l’imperatore fu certamente un megalomane e un visionario, ma anche l’artefice di un’arditissima rivoluzione culturale mirante a dirozzare i romani e a indirizzarli verso i costumi ellenistici, molto più civili e raffinati.
Insomma sarebbe stato un uomo in grande anticipo sui suoi tempi, un bizzarro incrocio fra un principe rinascimentale e un teppista, un ragazzaccio avido di vita e di piaceri. E anche un esibizionista, uno psicolabile schiacciato da una madre autoritaria e castratrice. Questo imperatore chitarrista, cantante, poeta, attore, scrittore, auriga, curioso di scienza e di tecnica, fautore delle più ardite esplorazioni, un monarca assoluto, usò del proprio potere in senso democratico e governò per il popolo contro le oligarchie che lo opprimevano e lo sfruttavano, inaugurando quella che oggi chiamiamo la politica-spettacolo.
I senatori e gli intellettuali non capirono Nerone o non vollero capirlo per non compromettere i loro interessi e privilegi. Lo capì invece la plebe romana che lo amò a lungo anche dopo la sua scomparsa, portando fiori sulla sua tomba.
Ho in parte riassunto e in parte citato alla lettera un estratto del libro di Massimo Fini riportato dallo stesso quotidiano. Quanto l’autore scrive su Nerone risulta certo interessante, pur se non del tutto nuovo, ma è destinato a rimanere di natura congetturale se non venga confermato da notizie ricavate su testi di provata autenticità: nel personaggio dell’imperatore avverto troppo la mano di Cecco-Boccaccio, grande romanziere e falsario che ha lavorato di fantasia su poche notizie tramandate intorno all’autocrate, riprendendole non si sa da dove.
Chi, per esempio, se non il colto giullare senese, goloso e bisessuale, può avere inventato il nome stesso del prefetto del pretorio di Nerone, Tigellino, vale a dire “bocconcino”, “focaccina”?
Su un particolare come questo posso anche sbagliare per le mie nozioni limitate sulle antichità romane, anche quelle archeologiche, e metto le mani avanti chiedendo scusa, ma chi vuole rendersi conto di che cosa fosse capace il senese nella ricostruzione romanzata della vita dei romani, non ha che da leggere il Satyricon, nel quale Cecco-Petronio Arbitro, per esempio, ci ha lasciato in chiave comica anche il ritratto più vivo di sé tramite il personaggio del vecchio Eumolpo, capace di piazzarsi nella cabina del pilota durante una tempesta in mare e di stendere in quattro e quattr’otto un poema su una pergamena immensa. A tale proposito si veda il mio saggio Risolta la questione omerica, Siena 2012, pp. 75-82.
Si saprà presto se ho avuto ragione a parlare di questa su Nerone come di storia romanzata: gli specialisti per secoli hanno accolto passivamente le notizie presenti nei codici medievali, ritenuti copie autentiche degli originali latini e greci.
Ora l’ipotesi da me avanzata nel 2009, in base alla quale dietro il Boccaccio del Decameron si celerebbe Cecco, è confermata dalla mia scoperta di due raccolte di novelle, veri e propri Decameron senesi, finora attribuite dai codici a autori improbabili come Gentile Sermini e ser Giovanni Fiorentino (L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angiolieri, Siena 2014, ilmiolibro.it, pp. 57-90).
Se Giovanni Boccaccio sparirà dalla scena che ha occupato per tanto tempo recitando in essa una parte di primo piano e il suo posto sarà preso da Cecco, dobbiamo aspettarci imminenti cambiamenti radicali nella letteratura italiana delle origini, e non solo in quella.
Non sarà facile discernere il falso dall’autentico, ma se, per esempio, si arrivasse alla conclusione che quanto vado sostenendo da anni, vale a dire che Tucidide, Livio e Tacito, tanto per citare gli storici più grandi, sono fasulli, risulterebbe evidente lo sconquasso che subirebbero la ricerca e le indagini sul passato, e anche tutto ciò che oggigiorno a quello è legato e investe tanto letteratura, storia e filosofia quanto scienza, tecnica, industria, il mondo scolastico retrostante, e perfino la religione. Non si dimentichi, a tale proposito, che a Tacito sono legate le prime testimonianze storiche sul cristianesimo.
Utile per capire meglio la personalità di Nerone è stato un bel documentario sulla Domus Aurea, trasmesso nei primi giorni di novembre 2014 da Sky, libero dalle solite invadenti inserzioni pubblicitarie e perfino da qualche frequente errore di pronuncia di parole sulle quali, detto fra parentesi, gli autori di documentari del genere dovrebbero cercare di mettere gli accenti giusti per evitare errori a presentatori digiuni di lingue morte, e talvolta anche di quelle vive.
Alla fine, attraverso le immagini del filmato, lo spettatore potrebbe essere tentato di vedere nell’imperatore più che altro un megalomane, ma secondo me si tratterebbe di un deduzione poco meditata: in fondo lo stesso Adriano, ritenuto un buon imperatore, con la sua reggia di Tivoli, rimasta a metà, non si comportò molto diversamente.
Bisogna tenere conto che un simile comportamento era legato solo in parte alla ricerca di fama e di prestigio personale da parte degli autocrati, che spesso con questi lavori pubblici trovavano anche un modo per non lasciare inattivi bravi artigiani e artisti e per evitare che una massa eccessiva delle plebi delle città, soprattutto quelle di una metropoli come Roma, rimanessero senza occupazione troppo a lungo, sopravvivendo grazie a misere sovvenzioni statali.
Quando, come ai nostri giorni, la saggistica registra una perdita continua di lettori, sorprende che il libro di Massimo Fini abbia avuto un successo notevole, successo che forse in misura maggiore si appresta a conseguire il recente bestseller di un Alberto Angela in gran forma, intitolato I tre giorni di Pompei.
Angela per le notizie intorno alla città e ai suoi abitanti si è basato molto su relazioni scritte degli scavi succedutisi in loco dal Settecento fino al nostro tempo. Tuttavia è innegabile che il racconto dei giorni della tragedia causata dall’eruzione si basi quasi esclusivamente sulle notizie particolareggiate tramandateci da Plinio il Giovane in una lettera indirizzata, nientepopodimeno, allo storico Tacito. Ritengo che questo senza dubbio tolga al saggio un po’ di credibilità e di interesse: che sia morta tanta gente è indubbio, ma quanto avvenne in quei giorni tragici è solo ricostruibile congetturalmente, e Cecco l’ha fatto molto bene.
Per giustificare la mia posizione su Gaio Plinio Cecilio Secondo, credo di fare cosa utile trascrivendo le poche righe che gli dedicai nel saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa, già citato:
Detto comunemente Plinio il Giovane, per distinguerlo da suo zio, l’ammiraglio, nacque a Como nel 61 d.C., fu avvocato di grido, ricoprì numerose cariche pubbliche e visse nell’agiatezza.
Gli vengono attribuiti il “Panegirico a Traiano”… e dieci libri di “Lettere”, sugli argomenti più disparati: famosa quella in cui chiede istruzioni e suggerimenti a Traiano su come comportarsi verso i cristiani, con annesso rescritto dell’imperatore, ma non meno famose quelle sull’eruzione del Vesuvio nel 79 e sulle fonti del Clitunno. È sempre stato considerato una specie di giornalista “ante litteram”, vanitoso e garrulo. Emulo di Cicerone, si forma sugli insegnamenti di Quintiliano, tiene rapporti con letterati e poeti, talvolta finanziandoli generosamente. Suoi amici sono Marziale, Tacito, Svetonio e ebbe imitatori in Simmaco e Sidonio Apollinare.
Con un prestanome molto ricco come lui il povero Cecco si poteva permettere di avere ville e tenute in mezza Italia, di regalare milioni agli amici e di comprare opere d’arte greche dispendiose: l’antica ricchezza era solo un sogno lontano, e apparentemente disprezzato, ma sempre vivo.
Tutto questo basta a far relegare il comasco senza tante esitazioni fra gli pseudonimi di Cecco…
Anche quella di suo zio Plinio il Vecchio, l’ammiraglio, autore di una “Naturalis historia” in 37 libri, sospetto che sia gloria angiolieresca usurpata…
Parlando dell’imperatore Adriano nel saggio Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto… (Siena 2013, ilmiolibro.it ), scrivevo a proposito di lui che nel 124-125 avrebbe compiuto un viaggio in Sicilia per salire sull’Etna a osservare l’alba che lassù ha i colori dell’arcobaleno: il viaggio riflette troppo la passione di Cecco naturalista e appassionato di vulcani che arrivò a far descrivere al proprio pseudonimo Plinio il Giovane la famosa eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei e causò la morte di suo zio Plinio il Vecchio, grande naturalista e ammiraglio della flotta romana di stanza a Miseno, ma in verità solo apprezzato scrittore enciclopedico agli ordini di Cecco. Teniamo poi presente che anche Cecco-Virgilio aveva parlato dell’Etna.
Una conferma su quanto sostengo intorno a Plinio il Vecchio emerge dalla notizia che lo stesso avrebbe scritto un’opera storica in 31 libri, in prosecuzione di quella di Aufidio Basso.
Quando spunta fuori il numero 31, Cecco cerca di mettere il lettore sul chivalà: qui, con un particolare come questo, a mio parere intende segnalare che Plinio il Vecchio è un suo alter ego.
Se spesso nei miei scritti sfido vanamente i filologi a dare una parafrasi aderente al testo del famoso sonetto Guido, i’ vorrei, attribuito a Dante, c’è un motivo preciso: in esso figura la frase quella ch’è ‘n sul numer de le trenta, vale a dire la trentuno, parola che interpretata in base al senese antico metterebbe in serio pericolo l’onore della povera Beatrice.
Dante, se fosse stato lui l’autore del sonetto, non si sarebbe certo sognato di farla partecipare a una magica crociera d’amore, organizzata da Merlino, insieme alle amanti dei suoi amici Guido Cavalcanti e Lapo Gianni (Cecco Angiolieri, Le rime di Dante Alighieri, a c. di M.Stanghellini, Siena 2014, ilmiolibro.it, pp.139-141).
Su Tacito desta molti dubbi il fatto che, dopo Plinio il Giovane, nessuno fino a Tertulliano menzioni uno storico della sua importanza e che Ammiano Marcellino abbia voluto farsi continuatore delle sue Historiae. Di Tertulliano e Ammiano mi sembra di aver detto abbastanza sul saggio La grandezza di Cecco…, già citato: i loro scritti mi sono apparsi poco raccomandabili quanto a autenticità, come del resto quelli dello stesso Tacito, sui quali ho parlato più a fondo nell’articolo “Il pessimismo di Tacito ovvero l’ottimismo cristiano di Cecco” in Risolta la questione omerica (Siena 2012, Betti editr., pp. 83-88).
Dispiace avanzare dubbi sull’attendibilità del saggio su Pompei di Alberto Angela, un bravo giornalista e divulgatore culturale televisivo, in fondo incolpevole perché per le proprie ricerche si è basato su opere scritte al riguardo da un autore latino finora ritenuto insospettabile e da specialisti, per lo più stimati accademici del tempo passato e di quello presente.
Piano piano, a mio immodesto parere, si dovrà finire per ammettere che questi studiosi si sono lasciati ingannare da un grande giullare colto, il quale grazie alla sua intelligenza superiore e alla sua abilità straordinaria è riuscito a celarsi dietro poeti come Omero e Virgilio, storici come Tucidide, Livio e Tacito, filosofi come Platone, filosofi-scienziati come Aristotele e Teofrasto, filosofi-teologi come sant’Agostino e san Tommaso.
Fra l’altro in un primo tempo fu anche maestro e amico di Dante.
Forse anche la Commedia senza di lui non sarebbe neppure stata scritta, sia perché Dante non avrebbe avuto le basi culturali necessarie per farlo, sia perché il poema sacro in una buona parte nasce dall’odio vendicativo del sommo poeta contro il nemico Cecco.
Perché a Firenze non si mostra la minima volontà di affrontare un problema come questo?
Benigni esaltatore di Dante e del capoluogo toscano serve solo a strappare qualche risata a milioni di spettatori televisivi, ma la sua preparazione, a guardare bene, si rifà in parte anche alla lettura e allo studio degli scritti dei maggiori dantisti del nostro tempo, che sono riusciti a dire poco di sostanziale sulla formazione del sommo poeta e sull’interpretazione di passi controversi della sua Commedia, fallendo nel tentativo di mettere a fuoco con maggiore precisione alcuni episodi che coinvolgono personaggi di primo piano.
Finora, per esempio, dopo tante barbose letture dantesche e studi accademici poco incisivi, non si è capito nemmeno chi si cela sotto il goloso Ciacco o il nudo e ustionato sodomita Brunetto Latini. Addirittura, in un canto del Purgatorio Dante prenderebbe le distanze da un falso quale la Vita nova, come ho sostenuto in un articolo del saggio Omero è nato a Siena (Siena 2012, Betti editr., pp. 117-120). E questo, se ho ragione, non torna a onore della cultura italiana e neanche del poeta italiano più studiato e considerato unanimemente il più grande: nessuno ancora ha compreso quanto l’abbia ferito profondamente un’opera come la Vita nova, offensiva per lui e per la memoria di Beatrice.
Addirittura, a mio parere la chiave per la soluzione della questione omerica, e di tutto il resto a questa legato, è celata nelle opere minori cosiddette di Dante, finora travisate, se ho ragione nel sostenere che il sommo poeta in esse viene preso elegantemente per il bavero.
Sarà difficile che quanto ho scritto riesca a distogliere il forte interesse di lettori e spettatori televisivi dall’immagine tradizionale di Nerone che, fatto appiccare l’incendio a Roma, riversa la colpa di quello sui cristiani, e anche da quella di Plinio il Giovane ansioso di informare Tacito sulla tragedia immane di Pompei.
La spiegazione per me più vicina alla realtà è nel fatto che dietro gli storici di quegli eventi si cela il senese, il quale vede in guerre e catastrofi naturali la punizione divina di quanti eccedono in potenza e ricchezza. In Nerone che a Anzio, accompagnandosi sulla cetra, canta l’incendio di Troia c’è anche un gioco allusivo, sottile ma evidente.
Cecco, che nella sua Eneide ha descritto l’incendio di Troia, madre di Roma, si nasconde sotto le vesti di un imperatore apparentemente un po’ pazzo, ma in effetti visto come uno strumento della vendetta divina nei confronti di un impero divenuto troppo potente.
Appare strano che il suo sonetto più famoso cominci con S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo? Lui non scrive mai niente per caso. Ecco completato il gioco allusivo di cui ho parlato poco sopra.
Questo è l’Angiolieri: quando tramite i suoi pseudonimi Omero, Lucrezio e Boccaccio, narra rispettivamente nell’Iliade, nel De rerum natura e nel Decameron le vicende drammatiche dell’esercito greco, degli abitanti di Atene e di quelli di Firenze colpiti dalla peste, quando per mano del suo alter ego Plinio il Giovane descrive Pompei soffocata e sommersa dalle ceneri del Vesuvio, intende additare con quei tragici eventi il destino dei popoli che oltrepassano la misura spinti dalla follia delle passioni e dei desideri umani.
Quest’articolo è stato pubblicato sul periodico “Le Antiche Dogane” nel marzo 2015