Sull’ultimo numero della rivista L’Alighieri (2008) sono comparsi due articoli interessanti: il primo, di Daniele Piccini, è intitolato Proposta per “Purg.” XI,97–99: l’uno e l’altro Guido, il secondo Nota su Dante e i “Guidi” della “Commedia”, e porta la firma di Michelangelo Picone, da poco scomparso. Cercherò di darne un riassunto molto breve.
Questi i versi in causa del canto XI del Purgatorio:
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria della lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
La maggioranza degli interpreti ha sempre inteso che il Cavalcanti ha tolto la gloria della lingua al primo Guido, il Guinizzelli, “il più remoto nel possesso del primato”.
Secondo Piccini tale interpretazione trova un ostacolo in quanto Dante dice al Guinizzelli nel canto XXVI del Purgatorio (vv.112-114):
…“Li dolci detti vostri
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancor li loro incostri”.
Lo studioso si domanda perché il sommo poeta nei canti XXIV e XXVI del Purgatorio, dedicati alla poesia, fa cadere il silenzio sul Cavalcanti, che invece in Purg. XI “verrebbe incoronato come il primo fra i poeti in volgare alla data del viaggio”, ma sostiene che difficoltà insuperabili si oppongono alla “candidatura di Guittone come primo e più antico Guido, scalzato dal Guinizzelli”. Lo studioso avanza perciò la candidatura del siciliano Guido delle Colonne come primo Guido, già sostenuta fra l’Ottocento e il Novecento da alcuni interpreti. Si avrebbe insomma una “staffetta” fra Guido delle Colonne e Guido Guinizzelli, con un’ulteriore presa di distanza di Dante dal “primo amico” Cavalcanti. Piccini inoltre vede in Dante il terzo poeta che “l’uno e l’altro caccerà del nido”, ritenendo però un po’ strana e discutibile l’espressione “l’uno e l’altro”. Michelangelo Picone, opponendosi a Mario Marti, che in una nota del Giornale storico (2007) vorrebbe “fare definitivamente punto e basta” in questo “ginepraio” ermeneutico, perché ci si dedichi a problemi più interessanti e validi, sostiene che la questione dei “Guidi”nella Commedia risulta essenziale “per una corretta decifrazione del significato profondo dell’intero poema sacro”. Afferma lo studioso che il rapporto fra Dante e il Cavalcanti, “già fortemente incrinato al tempo della Vita Nova (basti ricordare il cap. XXIV), viene qui definitivamente spezzato, senza alcuna possibilità di ricucitura in corso d’opera” e analizza i vv.61-63 di Inf. X, il canto dell’incontro fra l’Alighieri e il padre del Cavalcanti:
E io a lui: “Da me stesso non vegno;
colui che attende là per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.
Per secoli il pronome cui è sempre stato riferito a Virgilio, “disdegnato” da Guido sul piano letterario o filosofico-morale. Dalla fine dell’Ottocento in poi è stato invece collegato con Beatrice, che Guido disdegnò. Il Picone sulla scorta di uno scambio epistolare fra Pio Rajna e Francesco D’Ovidio (ipotesi ripresa da Letterio Cassata) riferisce a Dio il cui, non sciogliendolo ad Eum quem bensì ad Eum qui: insomma Dio stesso avrebbe escluso Guido da un tale viaggio, alla fine del quale a Dante è riservata la gloria del paradiso, mentre per il Cavalcanti si prepara la condanna eterna. Di conseguenza “l’uno (Guido)” non può essere che il Guinizzelli, iniziatore dello stilnovo, e “l’altro Guido” Guittone, caposcuola dei siculi-toscani.
Io sarei portato a interpretare cui come ad Eum quem in base al sonetto Ècci venuto Guido [‘n] Compostello, finora attribuito al Muscia da Siena ma di chiara fattura angiolieresca. Di questo sonetto riparlerò più avanti.
A questo punto cercherò di analizzare la questione dei due “Guidi” dalla mia visuale: per me i canzonieri Guinizzelli, Cavalcanti, Alighieri, Alfani, Gianni, Frescobaldi e quello di Cino da Pistoia sono tutti dei falsi composti da Cecco Angiolieri in un idioma fiorentineggiante assai improbabile; il substrato linguistico è senese. Non solo: è un falso tutta la letteratura siculo-toscana del Due-Trecento. Cielo d’Alcamo, Giacomo da Lentini, Pier delle Vigne, Guido delle Colonne e compagni, su su fino a Federico II e a suo figlio Enzo, come poeti non sono mai esistiti. Fra l’altro nel mio recente Il “Decameron” è di Cecco Angiolieri (pp.93-97) ho dimostrato che nemmeno il De arte venandi può essere attribuito al grande imperatore. Tutto Cecco anche un complesso di oltre settanta fra poeti e prosatori che vanno da Guittone, Bonagiunta da Lucca, Rustico Filippi, Folgóre e Cenne, Iacopo da Leona, Chiaro Davanzati, Monte Andrea, Dante da Maiano, Guido Orlandi, Compiuta Donzella e tanti altri fino a Immanuel Romano, Pietro de’ Faitinelli, Pieraccio Tedaldi, Giacomino da Verona, Bonvesin da la Riva, Iacopone da Todi, tanto per nominare i più grandi e i più noti.
La chiave di volta di questo enorme edificio di falsi è il De vulgari eloquentia, che in base alla mia interpretazione non è un vero e proprio trattato di lingua volgare, ma uno strumento geniale e sofisticato con cui Cecco fece autenticare a Dante i propri falsi, attirando su di lui, sprezzante verso tutti i dialetti italiani, molti risentimenti. Qualcuno in passato ha cercato di dimostrare che questo e altri scritti attribuiti al fiorentino sono dei falsi, ma è stato subito messo al silenzio: Dante non si tocca. Guido avrà fatto parte dei Fedeli d’Amore insieme agli altri pupilli di Dante (se anche questa altro non sarà che un’invenzione dell’Angiolieri), ma Dante non ne parla mai come di poeti. Ne ha invece parlato Cecco, e molto, nei suoi vari falsi, facendoli diventare quelli che oggi appaiono ai nostri occhi: Dante, bisogna riconoscerlo in tutta onestà, ha fatto solo il nome del Guinizzelli. Se i cosiddetti pupilli qualcosa in poesia hanno scritto, doveva essere tanto mediocre che è andata perduta, sommersa nell’oblio dai grandi canzonieri già menzionati, tutti opera di Cecco, che comincia per scherzo, per irrisione, e finisce per diventare lo stilnovista più grande.
Ripeto: per ragionare così bisogna essere consapevoli dei tanti falsi su cui si impernia il piano vendicativo di Cecco. Viene fuori che Dante, per gettare le basi dello stilnovo, ha fatto ricorso a un solo poeta, il Guinizzelli, esaltato nella Commedia, e a sé stesso. Il resto è tutta farina di Cecco. Ma allora l’Alighieri su che base ha potuto parlare del Guinizzelli come di un grande poeta, se il suo canzoniere è un falso? Mi sono accorto che nella seconda canzone di questo si tira in ballo addirittura la masturbazione e altrove l’omosessualità (son. X ); in un altro sonetto (XI), forse il più senese e il più bello, di cui parlerò fra poco, Cecco arriva a far vendicare il Guinizzelli contro Dante, che con il padre dello stilnovo non era stato troppo benevolo mettendolo fra i lussuriosi del Purgatorio. Dove sono allora le prove del Guinizzelli poeta? Ce lo dica chi parla tanto di lui, indicandoci qualche testo originale e almeno qualche parolina bolognese. Se queste prove non verranno fuori, vorrà dire che di lui è andato perduto tutto, oppure che Dante ha falsato la verità. Quanto a Guittone, credo che Michelangelo Picone non abbia avuto torto a vedere in lui uno dei due “Guidi”. E’ significativo anche per me il Guidonem presente nell’esemplare francese del De vulgari. Cecco è fino e forse ha voluto mettere in guardia i lettori informandoli che Dante ha visto in lui, Guittone, uno dei due “Guidi” del Purgatorio.
Inoltre per capire chi era il Cavalcanti uomo, basta leggere un sonetto rinterzato del suo canzoniere (LIII), con il quale Cecco, travestito da Dino Compagni, si rivolge a Guido dicendogli che è apprezzato soprattutto dalla gente del popolo: è prode, è coraggioso, sa tendere agguati, duellare, ha una cultura mnemonica e riesce a prevalere nelle discussioni con argomenti sofistici, ma gli uomini di vera cultura non possono che dare di lui un giudizio limitativo. Eppoi chi è nobile d’animo non dovrebbe avere bisogno, come fa lui, di portarsi dietro un seguito tanto numeroso. Così si comportano i grandi mercanti. L’attività giusta per lui sarebbe quella artigianale: potrebbe fare lo stesso soldi e dispensare ricchi doni. Quanto ai doni, per intendere così è necessario leggere al v.22 ed i<n> donando forte, come è più logico. Per me qui si allude ai doni e alle elargizioni che Dante riceve abitualmente dal primo amico, che abita nel castello Altafronte. Una chiara allusione in tal senso si ricava dal son.IV della Tenzone di Dante e Forese, di mano dell’Angiolieri, non certo di Forese, che poeta non è mai stato, né di Dante, vittima dell’irrisione:
Dal castello Altrafonte ha’ ta’ grembiate,
ch’io saccio ben che tu te ne nutrichi.
Ecco, secondo Cecco, ciò che legava Dante a Guido e che non bastò a cementare la loro amicizia, perché i legami di interesse sono sempre fragili. Per rendersi conto del valore di Guido come poeta, basta leggere i sonetti L(a), L(b),L(c), sempre del canzoniere a lui attribuito. Cecco, per bocca del suo pseudonimo Orlandi, rivolge al Cavalcanti l’accusa di sottigliezza eccessiva, artificiosità e incapacità tecnica. Guido risponde con tono sprezzante e sdegnoso, proprio di chi si considera grande poeta per essere stato a scuola da Amore, di cui si limita a perfezionare le composizioni che gli detta. Qui vengono fatte affiorare in maniera polemica le teorie stilnovistiche di Dante. L’Orlandi risponde demolendo Guido: sarà bravo a limare le maglie delle corazze, a passare da un argomento all’altro senza approfondirne nessuno, a fottere con il suo grosso membro, a essere generoso donando quanto gli costa poca fatica, a procurarsi sempre nuovi beni, a far fruttare il capitale e a capire solo ciò che è legato alla materia e alle passioni.
Ben altra sensibilità è in lui, Cecco-Orlandi, che ormai da un pezzo l’ha fatta finita con l’amore carnale. In conclusione, non potrebbe essere più evidente nell’Angiolieri l’intenzione di demolire l’immagine di un Cavalcanti intellettuale e poeta, che poi è opera sua, e la conferma di quella di un Guido molto tiepido in fatto di fede, se non addirittura ateo, dovuta al suo amico Dante (Inf. X). Porta a capire meglio tutto questo il sonetto Ècci venuto Guido [‘n] Compostello, di cui è autore Cecco, non certo il Muscia da Siena, mai esistito come poeta, ma solo uno pseudonimo del poeta senese. Due gli interlocutori del sonetto: il primo, diretto a Santiago de Compostela, chiede notizie di Guido a un altro che ne torna. Quest’ultimo, che parla senese, afferma che il Cavalcanti ha fatto sdegnare San Giacomo fingendosi malato e interrompendo il suo pellegrinaggio a Nîmes. All’inizio il primo interlocutore irride Guido: più che un pellegrino gli è parso simile nell’aspetto a un mercante di tessuti grezzi di canapa, con il suo passo sgraziato come quello di un papero e il suo abbigliamento sciatto che lo fa assomigliare a un rozzo campagnolo. La sua partenza è stata tanto repentina da far pensare che sia stato condannato all’esilio da Firenze o che, riottoso com’è, abbia prevenuto la condanna mediante una fuga volontaria. Il secondo interlocutore sostiene che il pellegrinaggio interrotto ha fatto sdegnare il santo, ma Guido a sua discolpa ha tirato in ballo una malattia, eppoi in precedenza non aveva pronunciato nessun voto al riguardo: così, bloccatosi a Nîmes, ha venduto i cavalli senza destinare il ricavato in beneficenza e, levatisi gli sproni, ha preso alloggio in un albergo.
Il significato del sonetto, travisato da tutti i commentatori, a me appare chiaro: Cecco intende farsi gioco di Guido descrivendolo non come un fine intellettuale e un poeta delicato e sensibile, bensì come un mercante volgarotto o addirittura un mezzo contadino, il cui viaggio devoto a Compostela termina a Nîmes, e Nîmes allude alla parola senese nimo, collegata alle parole latine nemo e nihil: insomma il pellegrinaggio di un ateo come lui non può che approdare al Nulla. Di recente il filologo Mauro Scarabelli in un articolo intitolato Il cammello e il falso pellegrino. Chiosa su “Ècci venuto Guido [‘n] Compostello” di Niccola Muscia (Lettere Italiane, 2009, pp. 110-126) ha mirato a “fare un passo avanti nella comprensione del sonetto partendo dal chiarimento di un’immagine particolare sino ad ora fraintesa, per poi tentare di rileggere solo in un secondo momento l’intero testo…”. L’immagine è nei vv. 7-8:
Ben par ch’e’ sappia ‘ torni del camello,
ché ss’è partito sanza dicer: Vàcci!
Lo studioso, in disaccordo sulla mia congettura testuale “Ben par ch’e’ sappi a tòrne del camello” (“…sappia prendere esempio dal cammello”), citando tre bestiari medievali anteriori al sonetto, intende “cammello” per “struzzo”, che “ ha come caratteristica proprio quella di partire e di non saper tornare”. Lascio ai lettori l’amena lettura della parte finale dell’articolo, che prendendo il via da questa interpretazione tutta “nova”, vale a dire “singolare”, “strana”, non arriva a niente proprio perché il filologo non ha capito, come non hanno capito tutti gli interpreti precedenti, che la chiave del sonetto è in Nîmes, il “Nulla”, significato a cui si può arrivare solo attraverso il senese antico. Sul mio intervento testuale, pur basato su altri passi simili di Cecco, potrei anche avere torto.
E allora basta lasciare al suo posto il testo tràdito (torni = “comportamenti”): “Pare che abbia fatto come il cammello che, quando uno ci è montato sopra, si alza di colpo e parte alla svelta senza che ci sia bisogno di incitarlo con un Vai!”. Ma il cammello si può levare di torno solo a prezzo di interpretazioni molto discutibili. Un’immagine come questa, che mette in evidenza la rapidità con cui Guido si è allontanato da Firenze senza che nessuno l’abbia spinto a farlo, è propria di un grande poeta realistico, altro che il Muscia. Ma per capire la grande poesia spesso tante citazioni e tanti tecnicismi servono a poco.
Da ultimo parlerò per esteso del son. XI delle false Rime del Guinizzelli al fine di completare il discorso avviato in precedenza. Ne do la parafrasi perché i lettori capiscano meglio l’argomento:
“Fra quanti vedessero Lucia portare in testa un cappuccio di vaio in modo così aggraziato, non ci potrebbe essere nessuno di qui fino alla terra d’Abruzzo che di lei non si innamorasse alla follia. Pare una bambina, figlia di uno del nord, tedesco o francese: il capo tagliato a un serpente non si agita tanto come fa il mio cuore. Che sarebbe poterla prendere a forza, contro la sua volontà, baciarle la bocca, il bel viso e gli occhi, che sono due fiamme di fuoco! Ma di ciò mi pento, perché ho pensato che questo modo di agire potrebbe recare dispiacere, e non poco, a qualcuno che conosco io”.
Che la mano è di Cecco e che l’idioma è senese ce lo dicono l’aggettivo gente, gentile, presente in molti pseudonimi del senese, a cominciare dai siciliani, l’espressione ‘n terra d’Abruzzo, che si trova anche in un sonetto finora messo fra quelli dubbi del poeta (Un marcennaio intende a grandeggiare) e nel Decameron (VI,10), e il mio congetturale Par zitellina al posto di Par, sì lorina del Contini. La correzione del filologo appare bella, ma in fondo “incappucciata di vaio” è già presente in un var cappuzzo del primo verso. Per me è invece indispensabile l’indicazione dell’età giovanissima di Lucia che, forse bionda e col cappuccio di vaio in testa, sembra una francesina o una tedeschina. Sulla mia correzione iniziale “Par citolina”, nelle rime cosiddette del Guinizzelli, qualcuno mi ha fatto notare che “citola” per “ragazzina” nel senese del Trecento non si trova. Nel mio saggio L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angiolieri, (Siena 2014, ilmiolibro.it, p. 68) ho segnalato che nelle Novelle finora attribuite a Gentile Sermini si leggono le parole citolaccio, citoli e citolo. Mi sembra di aver dimostrato con argomenti validi che il vero autore di quelle Novelle, un vero e proprio Decameron senese, è Cecco-Boccaccio. A parte questo, per me l’indicazione della giovane età di Lucia appare necessaria, perché a essere contrariato dal desiderio di baciarla espresso dal poeta non sarebbe un innamorato della ragazzina o un amico-amante dello stesso Cecco, come avevo sostenuto in un primo tempo, ma addirittura Dante, che è solito perdere la testa per le giovanissime. Cecco, loico e vendicativo come sempre, attribuendo il sonetto al Guinizzelli fa sì che quest’ultimo, dicendo ciò con atto di finto pentimento, si vendichi contro Dante che l’ha messo fra i lussuriosi del Purgatorio, riservando per sé la visione di Dio: Cecco non sopporta che si atteggi a giudice dei suoi simili un ipocrita che pecca più degli altri. Mai avremmo immaginato che nel dipinto di una ragazzina, così bello, moderno e struggente, attribuito al Guinizzelli, il bersaglio fosse proprio Dante, che del padre dello stilnovo nella Commedia aveva fatto lodi tanto eccessive da apparirci quasi fuori luogo, per il fondato sospetto che siano state dettate dal desiderio di portare acqua al mulino dello stilnovo.
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