I falsi di Beda, Gildas, Nennio e Goffredo di Montmouth.

Attribuita al Venerabile Beda, un monaco inglese che dall’età di sette anni sarebbe vissuto in due monasteri inglesi della Northumbria (672/673 – 735 d.C.) studiando, leggendo e scrivendo, con a sua disposizione più di due centinaia di codici preziosi, ci resta l’Historia Ecclesiastica gentis Anglorum, tradotta di recente in italiano con il titolo un po’ discutibile di Storia degli Inglesi.
Di quest’opera ho parlato in un articolo di 24 pagine del mio saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa (Aracne 2011, pp. 107-131).
In un latino scorrevole e classicheggiante l’autore afferma di rifarsi a fonti orali e annali ecclesiastici, ma anche a storici e scrittori come Eusebio, Rufino, Giuseppe Flavio, Orosio, Agostino, Gregorio Magno. Vengono narrati i contrasti e gli scontri feroci tra i celti Britanni, cristiani ma soggetti all’eresia, e gli Anglosassoni di origine germanica, pagani e barbari che, se evangelizzati dai monaci, mantengono una fede esposta a meno deviazioni.
Riassumere l’articolo, che risulta interessante, sarebbe troppo lungo. Mi limito alle conclusioni: a mio parere l’opera, splendidamente bella, è un falso del senese Cecco Angiolieri.
Beda fra l’altro cita Gildas come storico degli Angli, che sarebbe vissuto fra l’inizio del VI secolo e il 570, autore di un’opera in latino intitolata De excidio et conquestu Britanniae, nel 2005 tradotta in italiano da Sabrina Giuriceo per il Cerchio Iniziative Editoriali.

Di Gildas la notizia più certa parrebbe essere quella della morte avvenuta nel 570, presente in un’opera di Giraldo Cambrense, un chierico gallese del XII secolo, noto soprattutto per una descrizione dell’Irlanda. Sostiene la Giuriceo che il nome Gildas non pare d’altronde essere né di origine celtica, né latina; tra gli studiosi moderni si è fatta strada l’ipotesi che il nome Gildas sia o un anagramma o uno pseudonimo o, comunque, un ‘nom de plume’ usato dall’autore per proteggere la propria identità (p. 8). Quel poco che sappiamo di lui viene fuori da tre ‘Vitae Gildae’: la prima  risale all’XI secolo, forse all’anno 1008 e il suo autore sembra essere stato un anonimo monaco del monastero di Rhuys… Gildas, di origini nobiliari, avrebbe compiuto un viaggio in Irlanda  e uno a Roma “dal quale tornò carico di libri” (pp. 8-9).

L’ultimo particolare è importante e andrà tenuto presente. Cecco, pur consapevole che nell’antichità il libro era cosa rara, gioca a suo modo su questo attribuendo talvolta agli scrittori dell’età classica e medievale un numero esagerato di opere. Risultano poco credibili anche le notizie sulla quantità eccessiva di volumi che sarebbero stati conservati nelle biblioteche pubbliche, fra tutte quella di Alessandria, private e monasteriali. Il poeta latino Persio avrebbe donato addirittura al suo maestro Cornuto ben 700 libri del filosofo greco Crisippo (si veda il mio L’Umanesimo, la grande beffa di Cecco Angiolieri, Siena 2014, ilmiolibro.it. p. 27). Da qui in avanti gli scritti del filosofo Crisippo sarà meglio esaminarli più a fondo per cercare di vedere se Cecco ci abbia messo sopra il suo filosofico zampino.
Gildas sarebbe divenuto abate di un monastero da lui fondato nella Bretagna continentale e dopo aver compiuto molti miracoli sarebbe morto in modo inspiegabile: il suo corpo sarebbe stato ritrovato misteriosamente in fondo al mare dai monaci di Rhuys.
La seconda Vita Gildae viene attribuita a un certo Caradoco Lancabarnense. In essa compare la figura di re Artù o Arturo, prima attestata solo in Nennio.
La terza Vita, tramandata da un codice parigino, risalirebbe al XIII secolo e viene tenuta in minore considerazione rispetto alle altre due.
Sostiene giustamente la Giurieceo che nel “De excidio Britannniae si trovano ampie tracce di diversi scrittori cristiani: soprattutto le ‘Historiae adversos paganos’ di Orosio, da cui Gildas trae la descrizione geografica della Britannia e il racconto delle campagne dei Romani nell’isola; inoltre, dall’ ‘Historia Ecclesiastica’ di Eusebio, conosciuta attraverso la traduzione di Rufino, e dal ‘De viris illustribus’ di Girolamo, Gildas sembra aver attinto le informazioni sulla storia della Britannia cristiana. Ma nella classifica delle fonti il primo posto risulterebbe senz’altro occupato dalle Sacre Scritture. Per di più Gildas dimostra una certa familiarità con gli scritti di Virgilio, l’ ‘Eneide’ in particolare.
Avanzo l’ipotesi che il nome Gildas tragga origine dal falsario Cecco-Giraldo Cambrense, citato sopra: Giraldo vale Vertumnus in latino (si veda al riguardo quanto ho scritto nel saggio Risolta la questione omerica, Siena 2012, pp. 58-60).

Queste sono a mio parere le caratteristiche di maggior rilievo in Gildas: lo stile immaginoso e messianico, profuso senza risparmio nel De excidio, porta a pensare soprattutto a quella che per me è la traduzione-rielaborazione di intere parti della Bibbia, e anche dei Vangeli, attribuita a Gerolamo, proclamato santo dalla Chiesa. Nei miei saggi ne ho parlato ampiamente, indicando in Cecco Angiolieri lo scrittore che ha messo le mani nelle sacre Scritture.
Ha perfettamente ragione la Giuriceo a sostenere che Gildas dà prova di una conoscenza profonda del testo biblico (p. 61), ma quando aggiunge che o Gildas ha letto il testo biblico prima di iniziare a scrivere, o la Bibbia era per lui così familiare, che certi termini venivano alla memoria da sé, apparentemente senza sforzo alcuno, allora mi viene fatto di sorridere perché a mio parere è lui stesso che ha tradotto e rielaborato la Bibbia e i Vangeli e a lui si devono gli Atti degli Apostoli.
Non basta: citazioni e allusioni spaziano da Geremia, da Tertulliano e dai Padri della Chiesa fino  alle opere di Cicerone, Cesare, Tacito, Orosio e numerosi altri.
Fra tanti temi emergono quelli biblici di una divinità che punisce il suo popolo moralmente degradato e imbelle che si è lasciato assoggettare dai Sassoni. I Britanni erano stati vessati dai Romani, ma hanno meritato quel trattamento da Roma, che rappresenta il primato del cristianesimo, della pace e dell’unità politica (p. 72).
Anche da un’opera come questa si avverte il Cecco agiografo: sue sono le opere sulla vita di anacoreti, monaci e santi più famosi. Sue sono le opere più importanti relative a san Francesco e sua è quella miniera di agiografie costituita dalla Legenda aurea, attribuita a un improbabile Iacopo da Varazze.  Da esse, talvolta, affiora una consumata abilità di romanziere, come nella Vita di Malco, assegnata a san Gerolamo, di cui ho parlato in un capitolo del saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa (Aracne 2011, p. 179).
La mano di Cecco-Boccaccio è più che evidente. Sembra la trama di un film in tecnicolor: nei deserti della Mesopotamia Malco e la bella e giovane donna con la quale è fuggito dalla schiavitù, galoppano dieci giorni su due veloci dromedari per evitare la cattura da parte del padrone saraceno e dei suoi servi. Solo dopo molte peripezie riescono a giungere in salvo agli accampamenti di Sabiniano, un alto funzionario di Roma, un illustre sconosciuto menzionato unicamente da Ammiano Marcellino, altro storico pseudonimo di Cecco.
Anche Gildas non può che essere uno pseudonimo di Cecco, come del resto autori del calibro di Virgilio, Eusebio, Rufino, Giuseppe Flavio, Orosio, Agostino, Gregorio Magno e molti altri. Il senese, con un piano letterario che ha dell’incredibile, mirò a colmare i vuoti prodotti nella cultura del mondo antico dalle invasioni barbariche durante i secoli bui.
A mio parere queste ricostruzioni storiche, che di storico molto spesso hanno poco, basate su  cronologie non sicure, e i romanzi del ciclo bretone e arturiano che parlano dei cavalieri della Tavola Rotonda, del leggendario Artù, delle loro imprese e dei loro amori, risalgono a Cecco, celato sotto vari pseudonimi, fra cui figurano anche quelli di Chrétien de Troyes e di Rustichello da Pisa. Ne ho parlato di recente in un articolo intitolato La vera identità di Rustichello da Pisa e di Chrétien de Troyes, che fa parte del saggio già citato sull’Umanesimo.
Una cosa è certa: Cecco doveva amare grandemente l’Inghilterra per la sua bellezza, fertilità,  ricchezza di acque, l’amenità dei suoi paesaggi silenziosi. Per capirlo basta leggere certe pagine del Venerabile Beda e di Goffredo di Montmouth. Quelle pagine sono dei falsi, ma il loro autore  doveva aver visitato di persona quei luoghi e esserci vissuto a lungo. Serve a poco mettersi a fare congetture sulle fonti, su centri di culto e letteratura agiografica: Cecco è autore di numerose vite di santi, come si è visto sopra.
Finora i dubbi sull’autenticità della sua opera sono stati pochi, ma Cecco-Gildas aveva cercato di mettere sull’avviso i lettori. Scrive infatti alla fine del cap. 4:

Tenterò di portare alla luce solamente quei mali che al tempo degli imperatori romani la Britannia patì, o portò agli altri cittadini lontani, anche se non userò i monumenti letterari e gli scritti della patria, poiché di questi, anche se ve ne furono, non ne disponiamo: o sono stati bruciati dagli incendi dei nemici, o sono stati portati lontano dalla flotta di cittadini in esilio. Userò piuttosto una tradizione d’oltremare, la quale però, essendo invasa da numerose lacune, non è chiara a sufficienza.

La traduzione appare poco chiara, ma il difetto è dovuto più che altro al testo volutamente e ambiguamente incerto e talora perfino giocoso. Una cosa però si capisce bene: l’autore non ha potuto far ricorso a nessuna testimonianza attendibile e l’opera va presa per quello che è: un atto di amore verso l’Inghilterra, la sua storia, i suoi legami con Roma, soprattutto le vicissitudini seguite al ritiro delle legioni romane che fecero oscillare la popolazione fra paganesimo e cristianesimo, fra la sottomissione ai barbari invasori e la reazione strenua di un gruppo di cavalieri valorosi.
Spesso si sconfina nel romanzesco, nel giullaresco e nelle asserzioni fideistiche. Cecco-Gildas nel cap. 26 è su questo esplicito: le lotte fra i Sassoni invasori e i Britanni videro trionfare ora gli uni ora gli altri. Il Signore, com’è sua abitudine, per vedere se fosse amato o meno da questo popolo, mise alla prova l’attuale Israele, che poi sarebbe l’Inghilterra.
Discutere, come fanno gli studiosi, se la fine della guerra contro i Sassoni fosse avvenuta almeno 40 anni o più prima della battaglia di Badon, o se quest’ultima avesse segnato un periodo di pace che al momento della composizione dell’opera era ancora in corso da 40 anni, quando lo scrittore forse aveva 44 anni d’età (nn. 100 e 101, pagg. 97 e 98), mi sembra inutile proprio alla luce del significato che il numero quattro e i suoi multipli avevano per l’Angiolieri.
Come più volte ho cercato di mettere in luce nei miei saggi, il numero quattro in senese antico si pronunciava pressappoco “catro”, in modo molto simile alla parola cazzo, e il giullare colto Cecco, quando fa ricorso a esso, intende assegnare al contesto in cui inserisce la parola-numero il significato di affermazione senza senso, corbelleria, inganno.
Per capire a fondo lo scrittore senese, la logica, il ragionamento e lo studio non bastano. Tante sue opere sembrano trovare un suggello finale nella beffa, nella consapevolezza della vanità dei tentativi umani di arrivare alla realtà del passato.
Anche nelle altre opere in latino sulla storia inglese, attribuite a Nennio e a Goffredo di Montmouth, la mano appare la stessa.
Dietro la breve Historia Brittonum, attribuita al monaco Nennio di Bangor, fatta risalire al X secolo, c’è l’Angiolieri, appassionato autore di ricostruzioni storiche, che di storico troppo spesso hanno poco. La struttura su cui il libro si regge è costituita da discutibili tavole cronologiche, tipiche di uno scrittore animato da forte passione enciclopedica, troppo spesso non poggiata su fonti sicure, da una falsa tradizione patristica impersonata da Isidoro, Gerolamo, Prospero, Eusebio, segnalati nei miei saggi come pseudonimi del senese, e da fantomatiche cronache degli Scoti e dei Sassoni chiamate in causa.
Il nome stesso di Nennio fa pensare a quello del notaio egiziano di età bizantina Nonno di Panopoli (sotto il quale finora nessun papirologo è riuscito a individuare un altro pseudonimo di Cecco-Vertumno, l’uomo dai mille volti), autore delle Dionisiache, un poema composto di tanti canti quanti l’Iliade e l’Odissea insieme. Come si può vedere, se ho ragione, risulta arduo risalire ai motivi che hanno spinto lo scrittore senese a occuparsi nello stesso tempo della Bibbia, dei Vangeli e delle imprese e delle gesta di Dionìso, il dio più amato dell’antichità. La sua cultura enciclopedica e i suoi interessi sulle religioni sembrano non avere limiti, ma ora ci si può rendere meglio conto che è stato il notaio Cecco a popolare di tanti notai le letterature europee, particolarmente quella italiana delle origini.
Nell’Historia Brittonum colpisce la prima frase: L’isola di Bretagna è così chiamata dal nome del console romano Bruto, che trae la sua nascita da Ascanio, figlio di Enea.
Un indovino avrebbe vaticinato prima della sua nascita che il figlio di Ascanio sarebbe stato causa della morte di sua madre e poi di suo padre. La previsione si avverò: la madre morì durante il parto e Ascanio sarebbe stato ucciso in seguito dal figlio Bruto che, giocando con i suoi coetanei, colpì il padre con un casuale colpo di freccia. Il giovane, cacciato dall’Italia, giunse in un’isola che da lui prese il nome di Britannia.
Cecco, il vero autore di un poema come l’Eneide, si diverte da grande giullare con la materia del ciclo troiano, da lui trasferita fino in Inghilterra.
In parte questo può essere stato un atto di amore verso l’isola, la sua storia leggendaria e le lotte dei suoi re contro i popoli invasori, ma forse l’autore ha voluto vedere nel destino dei Britanni, vittime in un primo tempo dei Romani dominatori, l’intervento della vendetta divina: essi hanno assistito con gioia alla ritirata degli antichi padroni, ma Dio a causa della loro fede malferma e indebolita da posizioni eretiche li ha puniti mediante l’invasione degli Anglosassoni, gli eroi di Cecco, barbari e pagani ma ammirevoli, una volta convertiti dai monaci, per l’adesione salda alla nuova fede. Le sue idee di base sono sempre le stesse.
Non per niente anche certe lunghe genealogie di cui è infiorettato questo scritto fanno pensare a quelle della Bibbia, tradotta e rielaborata da Gerolamo, come si è già visto.
Cecco narra, con passione ma con pochi dati documentabili, il passato dell’isola, le imprese dei suoi re, le figure di santi come Germano e Patrizio, e anche quella leggendaria di re Artù, al centro dell’attenzione e dell’interesse dei lettori di allora e di oggi.
Ciò facendo mira a gettare un ponte fra Roma e l’Inghilterra, insieme alludendo a suoi capolavori come l’Eneide e alla traduzione-rielaborazione delle sacre Scritture, da cui si aspetta gran parte della sua gloria letteraria, ma non tralascia di ricordare neanche il Santo Vescovo Cutbert, di cui ho parlato nell’articolo intitolato La questione omerica e considerazioni finali del saggio Omero è nato a Siena (Siena 2011, Betti editr.,  pp. 188-190), che prende in esame anche l’attività di Cassiodoro sul testo biblico e lo splendido Codex Amiatinus, ora alla Laurenziana di Firenze, sul quale non può  escludersi la mano di Cecco, come ho sostenuto nell’articolo intitolato La questione omerica e considerazioni finali del saggio citato sopra  (pp. 185-189).
Si tenga presente che, attribuita al Venerabile Beda, Cecco scrisse un’opera in versi intitolata Vita e miracoli di san Cutberto, vescovo di Lindsfarne.
Legata a questo vescovo, molto venerato in Inghilterra, è la storia del più antico libro europeo, il Vangelo di san Cutberto: il volume, sepolto nel 698 d.C. insieme al santo, sarebbe stato ritrovato intatto nel XII sec. quando la tomba di Cutberto fu aperta. La questione è un po’ problematica, ma molto rilevante.  A mio parere in essa c’è di mezzo l’Angiolieri, interessato alla conservazione di un esemplare splendido dei Vangeli, quasi certamente da lui trascritto con cura e posto al centro di un giallo agiografico.
Quel codice, posseduto dai gesuiti inglesi dal 1769, tre anni fa è stato messo in vendita per nove milioni di sterline. Se la vendita sia andata a buon fine non lo so, ma chi volesse essere informato un po’ meglio sulla faccenda e sull’importanza di quel Vangelo, non ha che da leggere quanto scrissi a suo tempo nel saggio citato.
Ripeto che san Gerolamo, traduttore e rielaboratore della Bibbia cosiddetta dei Settanta, è anche il presunto revisore e traduttore del Nuovo Testamento. Se ho ragione a vedere la mano di Cecco dietro il lungo lavoro di san Gerolamo, la questione  è  piuttosto rilevante.

L’Historia regum Britanniae, attribuita a Goffredo di Montmouth, è la più ampia, circa duecento pagine, dopo l’imponente Historia ecclesiastica regum Anglorum di Beda.
Basta dare un’occhiata all’indice dei nomi in fondo all’opera edita da Guanda nel 1989, tradotta e commentata dalle studiose G.Agrati e M.L.Magini, per rendersi conto che qui l’autore ha lavorato molto.
Tralascio le notizie poco affidabili sulla vita e le opere di Goffredo, un magister di Oxford, presunto autore fra l’altro di alcune Prophetiae Merlini e, in esametri, della Vita Merlini.
Cecco-Goffredo, perché sempre di lui si tratta (ce lo testimoniano lo stile inconfondibile e il modo  con cui affronta la storia dell’isola tirando in ballo un vecchissimo libro in lingua britannica, il De excidio di Gildas, l’Historia Britonum di Nennio, l’Historia ecclesiastica di Beda, l’Historia Anglorum di Enrico di Huntingdon, i Gesta pontificum di Guglielmo di Malmesbury, tracce degli Annales Cambriae, vite dei santi, tradizioni locali, repertori di nomi di persona, geografici, racconti con al centro personaggi gallesi e un re leggendario come Artù), comincia con la descrizione dell’amata Britannia e del console Bruto che guida gli esuli troiani a occuparla dopo la propria condanna all’esilio.
Tuttavia, come si sostiene nell’introduzione da parte delle due studiose (p. 21), Goffredo in sostanza compose la “Storia” attingendo soprattutto alla propria fantasia, radicandola nella realtà quando gli era possibile, e lasciando che si sbrigliasse liberamente quando non conosceva i fatti o non gli faceva comodo tenerne conto.
Per tutto ciò ritengo difficile che si possa negare la paternità dell’opera all’Angiolieri, uno scrittore portato alla descrizione romanzata di avvenimenti storici: lui, come si è già visto, è insieme Chrétien de Troyes e Rustichello da Pisa, l’autore dei romanzi più importanti del ciclo bretone e arturiano, per non dire del Novellino, del Milione e del Decameron.
Anche qui, quando si parla dei re successori di Bruto, si fa ampio impiego di genealogie che ricordano quelle della Bibbia.
A un certo punto la storia della Britannia si intreccia con quella della vicina Gallia e delle lotte per il possesso di ampie regioni di questa sostenute dai Britanni. L’autore, trattando delle guerre condotte da Bruto in Gallia, arriva a parlare della fondazione della città di Tours da parte dei Troiani vincitori. Turno, un nipote di Bruto, che era il più forte e il più coraggioso dei Troiani, con la sua sola spada uccise seicento uomini; ma poi trovò una morte prematura in un assalto nemico. Da Turno, che fu sepolto in quella località, prese il nome la città di Tours.
Come si spiega questo ricorso alla leggendaria fondazione di Tours? Cecco, nelle vesti di storico un po’ singolare, non esita a attirare la nostra attenzione fornendo cifre al solito esagerate sul numero dei combattenti e dei morti (fa uccidere a Turno seicento nemici) e tira in ballo Tours perché la città era la patria del centurione Martino, un Gallo-Romano pacifista del sesto secolo, non certo un intellettuale, a cui si sentiva tanto legato, per la fede profonda e l’amore da lui dimostrato verso il prossimo, da attribuirgli opere notevoli di carattere agiografico e teologico.
Ho sostenuto questo in un capitolo intitolato La ‘Historia Francorum’ di Gregorio di Tours: un falso? del saggio La grandezza di Cecco… (pp. 93-106), arrivando a congetturare che i dieci libri della storia merovingica, gloria della Francia, altro non siano che un falso attribuito dal senese a Gregorio di Tours.
Non solo. Mi pare di aver fornito ampie prove che l’opera, più che un grande affresco storico delle imprese dei Franchi, sarebbe una semispecie di Decameron in latino ambientato nella Francia altomedievale. Se ho ragione, senza Cecco gli albori delle letterature europee si perderebbero fra le nebbie, ma l’attendibilità dello scritto dovrebbe essere esaminata meglio.
Tornando alla Historia regum Britanniae, quando si parla dei primi successori di Bruto, si legge che Mempricio, volendo ottenere il potere assoluto sull’isola, con un inganno uccide il fratello Malim e dopo essersi sbarazzato della maggior parte della nobiltà, elimina a tradimento i familiari che avrebbero potuto insidiare il suo primato. Come se non bastasse, abbandonò la moglie da cui aveva avuto un figlio molto stimato, di nome Ebrauco, e si dette al vizio della sodomia, preferendo l’amore contro natura al piacere naturale (p. 68).
A parte il nome Ebrauco, che sa tanto di ubriacone, ogni tanto il bisessuale Cecco non può fare a meno di svelare la sua vera natura. Significativo, a conferma che la paternità vera dell’Historia regum Britanniae, attribuita a Goffredo, appartiene a Cecco, è quanto si legge nel capitolo intitolato Il giovane Merlino, figlio di padre ignoto e di una principessa di sangue reale.
La donna, in seguito a un’offesa infamante rivolta dal giovane Dabuzio a Merlino, quando viene interrogata dal re Vortegirn sull’uomo con cui aveva concepito il figlio, tira in ballo un giovane bellissimo, che riuscendo a entrare nelle stanze dove lei si trovava con le compagne, la abbracciava, la baciava e d’improvviso scompariva. Alla fine la principessa era rimasta gravida.
Il re chiede a Mauganzio, uno dei suoi maghi, se la storia potesse apparire verosimile. L’uomo risponde che, come sostiene Apuleio nel De deo Socratis, tra la luna e la terra abitano i demoni incubi, a metà fra uomini e angeli, che sono soliti unirsi con delle donne: forse così è stato per la principessa. Cecco qui palesa non solo la sua natura di giullare, ma soprattutto i suoi legami con l’autore latino Apuleio.
Infatti non è tanto importante come va a finire la storiella legata a Merlino quanto la citazione  dell’opera di Apuleio, uno scrittore famoso, una semispecie di mago coinvolto a Tripoli di Libia in un processo imperniato sull’accusa di ricorso a stregoneria al fine di sposare una ricca vedova dopo aver provocato la morte di suo figlio.
Ne ho parlato nel saggio La grandezza di Cecco… (pp.186-188), arrivando alla conclusione che anche Apuleio è un alter ego del senese.
Se ho ragione, la composizione del De deo Socratis risalirebbe alla fine del Duecento – inizio del Trecento, e Goffredo di Montmouth non poteva aver letto un’opera simile. Del resto avrebbe potuto sapere ben poco anche dell’Eneide a noi nota, un falso moderno di Cecco.
Mi fermo qui: ho detto quanto ho riscontrato di più interessante nello scritto del cosiddetto Goffredo, mirando a dimostrare che si tratta di un ennesimo falso angiolieresco.
Del libro hanno parlato a sufficienza Franco Cardini nella presentazione e le due filologhe nell’introduzione. Cardini ha inserito con abilità evidente l’autore e la materia dell’opera negli avvenimenti storici del tempo, le due filologhe hanno messo in luce le fonti storiche, il successo fra i lettori, dovuto in gran parte all’interesse suscitato dalle figure di Artù e del mago Merlino, e molto altro che c’è da osservare sull’Historia regum per capirla meglio.
Ma se si tratta di un falso, come sostengo, tutto questo è destinato a avere un’importanza relativa di fronte a novità rilevanti che investono i primi documenti letterari in latino sulla storia e sulle leggende legate all’Inghilterra.

Quest’articolo è stato pubblicato sul periodico “Le Antiche Dogane” nel gennaio 2015