Giovanni Scoto Eriugena, la Rinascita carolingia e i Carmina Burana.

Con il titolo Navigare nel vortice dell’universo Maria Bettetini (Domenicale del “Sole 24 Ore”, 12 febbr. 2017) è tornata a parlare di Giovanni Scoto Eriugena, il monaco vissuto fra l’810 e l’877 in Irlanda, allora detta Scotia maior, a distanza di due anni dall’altro suo articolo apparso sul Domenicale il 4 gennaio 2015.
L’imperatore Carlo il Calvo, fatto venire il monaco alla Scuola Palatina, gli dette da tradurre un manoscritto, firmato da Dionigi l’Areopagita, incentrato su un universo platonico e cristiano insieme. Non si sa chi fosse questo scrittore del quinto secolo, non certo il Dionigi convertito dall’apostolo Paolo nell’areopago di Atene alcuni secoli prima. Ma il particolare è allusivo e andrà tenuto presente.
In breve, a Carlo il Calvo non era piaciuta la traduzione dal greco di quest’opera fatta da Ilduino e perciò la affidò alla cure sapienti di Giovanni Scoto. Questi non si limitò a tradurla, ma da essa trasse lo spunto per un’opera in quattro libri intorno alle quattro nature dell’universo, ora pubblicata dalla Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, a cura di Peter Dronke e tradotta da Michela Pereira sul testo già edito da  E.A. Jeauneau. Per altri particolari, fra cui quelli sulla difficoltà della navigazione in un mare siffatto, “pericoloso per i tratti dottrinali oscuri”,  rimando il lettore alla recensione della Bettetini.
Io ho già spiegato come la penso al riguardo in un articolo apparso nel numero del giugno 2015 della rivista “Le Antiche Dogane” sotto il titolo Aristotele, risate sotto i baffi e novità su Scoto Eriugena. Del mio articolo trascrivo qui solo la parte finale, lasciando in pace il povero Aristotele, da me un po’ bistrattato nella prima parte:

“All’inizio dell’anno Maria Bettetini ha recensito sul Domenicale (4 gennaio 2015) nuove edizioni dei Carmi di Giovanni Eriugena, a cura di Filippo Colnago, e del III volume Sulle nature dell’universo, attribuito al cosiddetto irlandese, a cura di Peter Dronke. L’articolo reca il titolo di Giovanni, poeta del vino.
Ecco un aspetto del monaco-filosofo dal nome strano di Scoto Eriugena, di cui i professori di filosofia al liceo non ci avevano parlato, limitandosi a farci conoscere le sue formule noiose relative alle quattro nature dell’universo. Anche qui compare il numero quattro, con il significato di “cavolata”, “stupidaggine” che il senese Cecco Angiolieri gli attribuisce spesso in base alla pronuncia particolare di “cattro”, nell’idioma senese antico, che allude alla parola oscena più amata e usata dagli italiani del nostro tempo.
A mio parere questo monaco-filosofo mostra molte caratteristiche comuni con Cecco, dannato da Dante come Ciacco fra i golosi, come Brunetto Latini fra i sodomiti del suo Inferno (per non dire di tanti altri suoi pseudonimi), e scoperto da me di recente come autore finora insospettato degli splendidi Carmina Burana, olezzanti di vino e di amore.
Scrive la Bettetini: Sappiamo molto poco della sua vita, collocata indicativamente tra l’810 e l’877…, ma non sappiamo dove acquisì lo stupefacente bagaglio di erudizione e di conoscenza del latino e del greco: forse in una scuola monastica irlandese, forse solo in terra francese, dove comunque giunse poco prima dell’85.
Il punto è qui, cara signora Bettetini, sapere da dove arriva la cultura classica alle corti di Carlo Magno e di suo figlio Ludovico il Pio, grazie alla quale sarebbe da allora avvenuta una vivace ripresa degli studi, definita molto discutibilmente Rinascita carolingia.
Neanche mi ha mai convinto quanto afferma lo storico famoso della vita di Carlo Magno, il nanetto Eginardo, sui forti interessi culturali dell’imperatore analfabeta, senza dubbio bravo guerriero e cacciatore, descritto a discutere di letteratura e filosofia in latino e in greco con dotti ispanici, franchi, germanici, italiani.
Questa è una fola che mi ha aiutato a riconoscere in quella Vita l’ennesimo falso di Cecco.
Se ho ragione a sostenere che un autore di genio ha scompigliato l’assetto letterario dal tempo di Omero fino a quello del Boccaccio, tante opere belle e allettanti dovranno essere esaminate meglio e con maggiore attenzione, anche sotto il punto di vista paleografico. Se risalissero al tardo Medioevo e se, come penso, gli stessi scritti di Agostino, Boezio, Marziano Capella, citati dalla filologa nella recensione, fossero spuri, Giovanni Scoto Eriugena sarebbe lo stesso autore che si è celato, insieme a tanti altri, sotto le vesti di Platone, Aristotele, Plotino, Lucrezio, Seneca e Tommaso d’Aquino.
Che poi Carlo il Calvo, figlio dell’imperatore Ludovico il Pio, sia stato più colto dello zio Carlo Magno e abbia affidato all’irlandese Giovanni Scoto la traduzione delle opere di Dionigi l’Areopagita, è cosa tutta da dimostrare. A mio parere questa sarebbe solo un’altra bella invenzione del giullare colto Cecco, che guarda caso ha in Dionigi l’Areopagita un suo pseudonimo, autore di tutta una serie di scritti in cui i princìpi cristiani sono esaminati alla luce di quelli filosofici neoplatonici e divenuti “una delle basi della teologia e della mistica medievali” (Diz. Della Civiltà Classica, Roma 2001, vol. I, p. 840).
Qualche dubbio su Dionigi lo espressi in un capitolo dedicato al cosiddetto patriarca Fozio nel saggio Omero è nato a Siena. Aggiungo che nel nome di Dionigi l’Areopagita c’è una sottile allusione alla vicenda degli Atti degli Apostoli già citata. La tecnica allusiva, tipica del senese, costituisce un’altra prova che gli Atti degli Apostoli sono un altro falso ben riconoscibile di Cecco.
Se avessi ragione, gli apprezzati filosofi e filologi che insegnano nelle università del mondo saranno anche intellettualmente ben dotati, ma finora non si sono accorti di essere stati presi per il bavero da un giullare colto senese, che aveva fatto lo stesso con l’amico Francesco Petrarca.
La cosa dura ormai da troppi secoli e sarebbe bene che se ne incominciasse a parlare, anche contro gli interessi evidenti di specialisti e delle case editrici alle loro spalle, che in opere probabilmente non autentiche hanno trovato una fonte perenne di lavoro e di guadagno. Qui sono in gioco l’originalità e la genuinità della cultura che dall’Europa si è diffusa in altri continenti.
Confesso di essere poco portato alla filosofia e ai ragionamenti filosofici, ma quando leggo in manuali di livello universitario, per esempio in quello di un docente stimato come Jean Brun, certe definizioni sull’ousìa, con tutto il rispetto per Aristotele, mi rifiuto di andare avanti. Non per niente secondo il razionalista positivista Léon Brunschvicg, per esempio, le spiegazioni aristoteliche delle cause ultime apparterrebbero “alle stesse spiegazioni che si possono trovare nei ragionamenti dei bambini di otto anni”. Secondo lo studioso, Aristotele ha avuto il difetto di voler creare una fisica senza matematica.
Non intendo entrare in cose che superano le mie conoscenze e la mia comprensione. Mi limito a dire che a mio parere sotto le vesti di Cecco-Aristotele si cela un letterato raffinatissimo, dotato di intelligenza grande, che con ostentata serietà scientifica, partendo da principi logici cerca di portare a conclusione i suoi ragionamenti, la cui coerenza talvolta è solo apparente.
Quel giullare colto era consapevole che prima o poi qualche crepa avrebbe finito per far scoprire nella sua bellissima costruzione, edificata con indubbia abilità ma solida fino a un certo punto, una beffa impareggiabile mirante a provocare in tutto il mondo risate epiche quando qualcuno finalmente fosse arrivato a trovare la chiave di lettura rivelatrice del mistero buffo presente non solo nelle opere del maestro di color che sanno, ma anche in una massa sterminata di capolavori delle letterature classiche e medievali”.