Alla faccia di Dante Alighieri: la vendetta di Cecco-Boccaccio.

Marco Carminati nel Domenicale del “Sole 24 Ore” (19/11/2017) ha intitolato Alla faccia di Dante Alighieri un articolo in cui recensisce il saggio dedicato da Sonia Chiodo alla ritrattistica dantesca, inserito nel volume Le vite di Dante dal XIV al XVI secolo.
Questo segna il primo passo di un piano della Salerno Editrice volto all’edizione commentata delle opere di Dante, in vista del settimo centenario della morte del poeta fiorentino. Se ho capito bene, la monografia è stata presentata qualche giorno fa a Parigi durante una giornata dantesca e il 23 novembre scorso a Milano.
Dalla recensione che Paolo di Stefano ha fatta del volume sul “Corriere della Sera” (13 novembre) mi sembra di aver capito che novità di rilievo non siano emerse rispetto alle biografie dantesche di Pasquini (2007), Gorni (2008), Santagata (2012), Inglese (2015). Chi avrà la pazienza di leggere quest’articolo, si accorgerà che, se ho ragione, pubblicazioni come quella di Enrico Malato, che ignorano l’esistenza di una sottostante questione dantesca, appaiono premature e inopportune, tanto più che lo stesso Trattatello attribuito al Boccaccio cela in sé qualcosa di cui vale la pena di discutere.
I ritratti di Dante a noi noti deriverebbero da un prototipo presente negli affreschi tracciati da Giotto e dai suoi scolari nella Cappella del Palazzo del Bargello, scialbati quando l’edificio fu trasformato in prigione.
Nel 1837, liberati dallo scialbo e dalle manomissioni di un restauratore, i tratti del volto del poeta apparvero molto simili a quelli descritti dal Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante. Le caratteristiche più evidenti sono il volto lungo, la barba e i capelli crespi e neri, gli occhi grossi, il labbro inferiore prominente e il naso aquilino.
Carminati riporta un passo famoso della prima redazione del Trattatello: Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito, in quello abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.
Ritengo utile trascriverne anche la seconda redazione: Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il colore bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso.
Lo scrittore qui è più conciso e deciso, calcando forte la mano sui difetti fisici di Dante, aggravati dall’aria malinconica del poeta: alquanto curvetto diventa alquanto curvo. Con una lieve modifica lo scrittore ha mirato non solo a eliminare la ripetizione di andò e andare, ma soprattutto a mettere in risalto che Dante era proprio gobbo.
A mio parere il Trattatello è tutt’altro che una laude di Dante, e non solo per la descrizione delle sue caratteristiche fisiche. Bisognerebbe che i commentatori smettessero di ripetere che il Boccaccio provava forte ammirazione verso il sommo poeta, sconfinante nella venerazione. Non è affatto così.
Già nel 2012, in un saggio intitolato Risolta la questione omerica, ipotizzai nel Tresor un falso dell’Angiolieri e in altro saggio dell’anno successivo (Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto) trattai della questione di ser Brunetto con altri particolari di rilievo.
Già a cominciare dal mio saggio intitolato Il Decameron” è di Cecco Angiolieri (Siena 2009) sostenni che il cosiddetto certaldese sarebbe uno pseudonimo di Cecco. In alcuni articoli recenti comparsi sulla rivista “Le Antiche Dogane” ho segnalato anche qualcosa di molto più importante che, se accolta, finirebbe per risolvere quella che, ignorata da tutti gli specialisti, costituisce la questione dantesca, a mio parere non meno rilevante di quella omerica perché è alla base dell’autenticità non solo delle opere minori dantesche, ma anche di gran parte della letteratura italiana delle origini e dei capolavori che costituiscono la gloria di grandi paesi dell’Europa dell’antichità classica e di quella altomedievale.
Il guaio grosso è nato anche per il caratteraccio di Dante, superbo e bilioso, ma soprattutto per il campanilismo dei fiorentini dotti, Cruscanti compresi, ostinati a voler accrescere oltre misura la gloria del proprio poeta, autore della Commedia, attribuendogli in base alle didascalie dei codici opere minori che non può avere scritte, quelle in volgare perché presentano forme idiomatiche caratteristiche del senese antico e quelle in latino perché Dante conosceva molto male la lingua dei dotti, per confessione del suo vero maestro, non certo il funzionario comunale ser Brunetto, quest’ultimo neanche sodomita per ammissione ripetuta ben cinque volte dall’autore vero del Tresor.
Cecco, notaio senese, il più vecchio dei due, fu non solo amico di Dante ma anche il suo maestro. La prova inoppugnabile di questo risale a qualche mese fa: ho scoperto che Cecco, nel tentativo di gettare un fascio di luce sulla faccenda, tramite il suo alter ego Giovanni Boccaccio nel sottotitolo del Decameron, a distanza di molti anni dalla morte dell’Alighieri, per scrollarsi di dosso l’infamante accusa dantesca scrive in modo un po’ criptico: Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini.
L’allusione al V canto dell’Inferno, quello di Paolo e di Francesca, è chiara anche se finora nessuno anche fra gli editori più recenti ha capito il motivo che spinse l’autore a farla e a definire prencipe Galeotto il suo Decameron.
Quel breve sottotitolo a me è apparso risolutivo: lo pseudonimo “Chretien de Troyes”, alludendo a Troia e ai falsi tardomedievali dell’Iliade e dell’Odissea, additerebbe in Cecco l’Omero cristiano, “il principe dei poeti”, ben diverso dal “Galeotto” di Dante. Inoltre, da parole senza dubbio senesi come prencipe e diece, si deduce che chi volutamente le ha usate è nato a Siena e non a Certaldo.
A questo punto si ha fra le mani uno strumento decisivo per stabilire che il nome di Giovanni Boccaccio è destinato a sparire dalle letterature mondiali. Cecco Angiolieri diverrebbe un astro di prima grandezza non solo nella letteratura italiana delle origini e nelle letterature di Atene e Roma, ma anche in quelle dell’Europa altomedievale. Definirlo un falsario è riduttivo. Senza il suo genio smisurato e la sua ostilità verso Dante la civiltà occidentale sarebbe stata ai nostri giorni un pallido riflesso di quella che è.
Questa non è una notizia insignificante, ma nessun quotidiano e nessuna rivista letteraria di rilievo l’hanno degnata di un solo accenno. I senesi, che di più guadagnerebbero per vari motivi da una rivoluzione del genere, muti come pesci, eternamente indaffarati a parlare di palio, del Monte dei Paschi e di sport.
Forse tifano anche a favore dei fiorentini, al campanilismo dei quali risale in maggior misura la nascita di un guaio simile, che potrebbe far sparlare l’intellighenzia mondiale dei “soliti italiani”.
Siena e Firenze ormai sono diventate compagne di merende per i comuni ideali e interessi politici. Firenze non intende perdere il Boccaccio cui è fortemente legata, e a ragione, tuttavia dovrà aprirsi a riconoscere la vera identità del Boccaccio e la grandezza di Cecco: nella seconda metà del Duecento era una città ricca per i suoi traffici mercantili ma un po’ ignorantella, come riconobbe Billanovich.
Senza Cecco molto probabilmente non esisterebbe neppure la Commedia. Ser Brunetto Latini con la formazione di Dante non ha niente a che vedere: era un funzionario comunale, dotato di cultura limitata, che non sarebbe stato in grado di comporre non solo il Tresor, ma neanche il Tesoretto, tutta merce preziosa di Cecco. Non si può dire che Dante nella Commedia abbia mentito definendo Brunetto il suo “caro maestro”. Certamente conobbe e fu amico di Brunetto, ma scaltramente se ne è servito come paravento per non nominare direttamente nel poema il suo vero e odiato maestro senese.
Quando infatti a un certo punto i due amici per vari motivi (politici, religiosi e culturali) da sodali affettuosi divennero fieri nemici, rinfacciandosi a vicenda peccati infamanti, Dante, che riteneva Cecco un pluripeccatore immondo, non lo menziona mai nella Commedia con il suo vero nome, ma fa ricorso agli pseudonimi vari cui il senese aveva attribuito la paternità dei falsi miranti a irridere e a colpire il suo vecchio amico e alunno.
Brunetto Latini, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Guittone e Bonagiunta da Lucca sono semplici controfigure di Cecco il falsario. Ma la cosa è complessa e il senese appare anche sotto i nomi di Ciacco, maestro Adamo, Sordello e altri. Sospetto che lo stesso Virgilio venga visto da Dante come uno pseudonimo del suo nemico. Della questione molto ardua e di grande rilievo ho parlato nell’articolo intitolato Domenico Comparetti, farmacista-filologo, e il suo“Virgilio nel Medioevo (“Le Antiche Dogane”, febbraio-marzo 2017).
La conseguenza di tutto questo, forse avvertita solo in parte da Dante, pur molto avveduto ma trascinato da risentimento fiero e quasi incontrollabile contro il suo nemico, è che Cecco finisce per divenire il personaggio principale del poema sacro, per me il poema dell’odio.
Non è accettabile che dopo sette secoli l’interpretazione delle parti più notevoli della Commedia sia sempre al caro babbo per l’ignoranza dei dantisti che non hanno imparato a distinguere fra la lingua senese e quella fiorentina e per l’omertà di specialisti di tutto il mondo che per motivi legati alla fama e alla carriera non intendono ammettere i gravi errori che si sono commessi in passato.
Siamo solo all’inizio della soluzione relativa alla questione dantesca, ma forse la parte più difficile è ormai alle spalle. Il guaio è che finora da nessuno in Italia e altrove è stata fatta una sola parola al riguardo.
O gli specialisti sono convinti delle proprie ragioni e ritengono perfino inutile e indecoroso menzionare il mio nome di aspirante filologo oppure esitano a tirare in ballo una questione per loro molto pericolosa e non onorevole. Durante gli anni in cui insegnai con poca passione alla scuola media inferiore mi sono fatto una certa cultura personale nelle letterature europee del passato e all’università mi ero messo in luce con una tesi in papirologia greca su una pubblicazione in cui avevano messe le mani filologi come Comparetti e Vitelli. Se ho ragione e non sono matto del tutto, la verità verrà fuori prima o poi.
Cecco ha dovuto attendere sette secoli nella sua tomba terragna di Certaldo Alto per vedere emergere i primi particolari del suo vasto piano letterario di grande falsario, che sa insieme di beffa e di vendetta contro l’umanità legata a una politica e a una fede religiosa per lui dominate da eccessiva smania di potere e di ricchezza.
A troppi sta a cuore che questo piano venga fuori il più tardi possibile, ma tale comportamento è meschino e indegno di quanti tramite gli studi letterari dovrebbero mirare soprattutto a far emergere la verità e non a nascondere errori per interesse personale, dando un cattivo esempio a quanti li seguono come luminari.