Il “nome della rosa”, un’opera di successo, ma forse anche un’occasione mancata per un nuovo assetto della cultura europea..

Qualcuno ha definito “bello e falso” il romanzo di Umberto Eco che qualche altro, dopo la recente rielaborazione televisiva targata RAI, ha ribattezzato Il nome della noia.
L’ho letto e ne ho vista varie volte la riduzione cinematografica del regista Annoud, comprendente  nel cast un bravo attore come Sean Connery. Il film, in bianco e nero, dura un paio d’ore, contro le sette raggiunte dalla recente edizione televisiva in varie puntate.
La RAI avrebbe fatto meglio a gareggiare in brevità con il regista Annaud e con qualche sforbiciata al testo di Eco si sarebbero eliminate certe parti troppo pesanti del romanzo.
Forse sarebbe stato un nuovo successo, magari meno cupo nelle immagini. A me sono bastati pochi minuti per cambiare canale.
Così vanno le cose dove con i soldi del canone si mira a tenere impegnato il più a lungo possibile un personale in soprannumero, e a scapitarci è la produzione.
Quanto al testo di Eco, non c’è dubbio che esso rappresenti un affresco di epoca, con guerre religiose sullo sfondo, inquisizione di eretici, vicende di un personaggio storico come fra Dolcino e tante elucubrazioni di genere storico-filosofico-teologico care all’autore.
Il romanzo, pur concedendo molto alla fantasia, finora è apparso impostato su basi piuttosto solide, ma al riguardo ho dei dubbi di cui parlerò fra breve.
Innegabile un suo difetto: l’allargamento eccessivo della rosa dei sospetti di questo giallo medievale, ambientato in un monastero italiano nell’anno 1327, porta a far allentare la tensione in lettori e spettatori, coinvolti e talvolta anche frastornati da un’opera che è stata definita un concentrato di generi letterari.
Non ho certo le ampie conoscenze che di quel periodo aveva Eco, scomparso da non molto. Ma, se ho visto giusto, ho finito per scoprire qualcosa di sostanziale sfuggita al filologo, che amava definirsi semiologo, ai suoi colleghi e alla marea di lettori.
Confesso che i romanzi gialli di vario genere non mi piacciono perché mi perdo nelle loro trame a me ostiche. L’autore di quelli da me preferiti è l’americano Chandler. Gli altri mi hanno sempre annoiato, compresa Agatha Christie, la regina del genere giallo-poliziesco.
Nel Nome della rosa la trama è imperniata sul secondo libro della Poetica di Aristotele, della quale  è rimasto solo il primo, che tratta della poetica in generale e della tragedia.
Il secondo libro, a mio parere mai stato scritto né da Aristotele né da un falsario celato sotto le sue vesti, avrebbe dovuto affrontare il tema della commedia e del riso: la sua presenza nella biblioteca del monastero è un espediente, introdotto dallo scrittore bolognese per lo sviluppo della trama del romanzo.
Leggendo e studiando le letterature europee dell’antichità, penso di avere scoperta celata in quelle la mano abile di un autore del Due-Trecento, Cecco Angiolieri, in cui di recente ho riconosciuto il vero maestro di Dante: ciò basterebbe a dare un rilievo straordinario al senese, ma se questi in base a un suo piano a lungo termine avesse manipolato quelle letterature in maniera geniale, come penso, ci si troverebbe davanti a una questione reale della quale per secoli nessuno si è reso conto, e che presto potrebbe far crollare molte certezze acquisite.
Sull’argomento sto scrivendo saggi e articoli da una decina di anni. Tuttavia gli specialisti non gradiscono novità rivoluzionarie e ai lettori piacciono molto più le fantasie romanzesche di Eco delle deduzioni emerse da una lettura approfondita dei testi, che per esempio mi hanno portato a scoperte di rilievo anche nelle opere minori, soprattutto quelle in volgare, a torto attribuite a Dante per la presenza di espressioni proprie dell’idioma senese antico, scambiato finora per fiorentino.
Eco è stato un autore di successo, molto stimato per la sua preparazione, ma se ho ragione a pensare che la stessa Poetica attribuita a Aristotele sia un falso tardomedievale, parecchie cose sarebbero destinate a cambiare non tanto in un romanzo di fantasia come Il nome della rosa quanto in opere fondamentali del patrimonio culturale europeo.
La stessa biblioteca del cupo monastero, che l’autore descrive come un labirinto stipato di manoscritti curati da monaci esperti in lingue classiche, appare ai miei occhi anacronistica. Potrebbe forse andare bene, anche se solo fino a un certo punto, per Montecassino prima delle spoliazioni subìte dal monastero fra il V e il VI secolo dopo Cristo.
Detto questo, si può discutere su quel romanzo: certe sue caratteristiche sono comuni a altri scritti del genere, in cui la fantasia gioca un ruolo innegabile, e l’autore ha puntato a ragione il dito soprattutto contro gli eccessi commessi dalla Chiesa di Roma nella lotta contro eresie e ideali pauperistici di movimenti e ordini religiosi per difendere il proprio potere e le proprie ricchezze.
Il fatto è che partendo da una vicenda sospesa fra realtà e fantasia si finisce per trovarsi di fronte a un problema letterario reale, celato sotto una trama romanzesca.
In essa il filo che lega tante morti misteriose, da quella del giovane monaco Adelmo a quelle altrettanto inspiegabili di Venanzio, altro giovane confratello, traduttore dal greco, dell’aiutante bibliotecario Berengario e di altri monaci, è il fantomatico manoscritto greco custodito nella biblioteca del cupo monastero.
L’inglese Guglielmo di Baskerville, al centro delle vicende del romanzo, per indagare su quelle morti, con il suo giovane allievo Adso da Melk riesce a entrare nel labirinto della biblioteca e a scoprire dove è custodito il manoscritto della Poetica attribuita a Aristotele, contenente il secondo libro, l’ultima copia rimasta al mondo. Ben presto intuisce che quelle pagine sono maledette: chiunque le sfogli muore.
L’anziano monaco Jorge de Burgos, che conosce ogni segreto del monastero, dopo l’eliminazione del bibliotecario Malachia tenta addirittura di liberarsi dello stesso Guglielmo di Baskerville, dandogli a leggere la copia preziosa del secondo libro aristotelico cosparsa di veleno.
Il frate inglese si salva sfogliandola con le mani protette da guanti, ma Jorge, nell’estremo tentativo di disfarsi del manoscritto per impedirne la lettura, prima di morire provoca un incendio dal quale l’abbazia viene incenerita con i suoi tesori letterari fasulli.
Tuttavia, dovrebbe essere spiegato meglio perché Jorge cerca di fare in modo che muoia chi sia arrivato a leggere quel codice. Inutilmente ci si aspetta di venire a sapere che cosa celasse il suo contenuto di tanto grave, oltre ai temi della commedia e del riso, da far commettere al monaco una lunga serie di delitti.
L’atmosfera del romanzo è sovrastata dal sospetto di diffusione dell’eresia che tormenta un monaco conservatore come Jorge, il quale forse vede proprio nei temi ludici della commedia e del riso gravi pericoli per la fede cristiana, tali che un inquisitore come Bernardo Gui, intervenuto per risolvere il mistero di quelle morti, finisce per processare e condannare al rogo un paio di personaggi del monastero che, indulgendo ai vitali piaceri della carne, sono accusati di covare idee sovvertitrici dell’ortodossia e sospette di collegamento con opere del mondo antico e medievale.
Anche l’opera, il cui titolo è stato spiegato in seguito dall’autore (ma a mio parere contiene un’allusione evidente al Roman de la Rose, un poema molto importante in francese antico, attribuito dalle didascalie a due autori francesi medievali, ma certamente un ennesimo falso di Cecco), insieme a tutto il resto è destinata a scomparire. Del monastero, della sua biblioteca e dei libri in essa contenuti, compresa la fantomatica ultima copia del secondo libro della Poetica, divorati dal fuoco, rimarrà solo il ricordo, costituito da semplici nomi.
Umberto Eco a un certo punto, forse ironicamente o forse infastidito da qualche polemica, definì Il nome della rosa il suo romanzo peggiore.
Senza dubbio è il più leggibile. Basterebbe a provarlo in modo schiacciante il favore di oltre cinquanta milioni di lettori in tutto il mondo che, se hanno fatto come me, si sono limitati a scorrerne alla svelta certe parti più indigeste, che sanno troppo di lezioni accademiche.
Piuttosto mi viene da pensare che l’atteggiamento un po’ strano e polemico del semiologo verso il proprio romanzo potrebbe risalire a aporie, difficoltà reali non risolte, presenti nella trama del romanzo stesso.
Mi sento di poter affermare che un romanzo come quello, che apparentemente affonda le sue radici nella grande cultura umanistica europea, messo a confronto con quanto vado scrivendo da anni sui problemi reali di quella cultura, finisce per assumere l’aspetto fiabesco che la ricostruzione di Cecco ha impresso a un mondo lontano.
A mio parere il comportamento di Jorge, sottoposto a un esame approfondito, risulta eccessivo e privo di una motivazione accettabile.
Che cosa ci poteva essere di tanto grave nel secondo libro dell’opera aristotelica da far commettere al monaco, fermamente deciso a impedirne la divulgazione, una lunga serie di delitti?
Risulta indubbio che il contenuto di quel codice sia potuto apparire dannoso a un personaggio come Jorge, condizionato da sospetti di pericolose eresie, affioranti per conservatori come lui dalle letture e dalla condotta dei cosiddetti fedeli.
Appare anche innegabile che Eco abbia fatto centro additando nel contenuto sovvertitore del secondo libro della Poetica il motore della trama, ma il fatto è che Aristotele, l’autore indiscusso per tutti, era pagano. La condanna in una sua opera di contenuti supposti eretici appare problematica, a meno che in quello scritto il filosofo fosse arrivato a mettere in dubbio la validità di tutte le religioni, atteggiamento improbabile che a guardare bene neanche l’epicureo romano Lucrezio, o chi per lui, osò affrontare apertamente.
A mio parere, anche se Cecco-Aristotele non portò a termine la Poetica, come per esempio fece con altri suoi falsi più noti quali il Convivio e il De vulgari eloquentia, tuttavia celandosi sotto le vesti di autori greci e latini come Aristofane, Menandro, Plauto, Terenzio e Marziale ci ha lasciato molti esempi più che esaurienti intorno al tema della commedia e del riso.
Per me, che ritengo un falso tardomedievale la Poetica aristotelica, il guaio vero è che quasi tutta la letteratura umanistica, compreso il De rerum natura attribuito a Lucrezio, risalirebbe alla mano del falsario Angiolieri.
La mia scoperta, se legittimata, metterebbe a rischio l’autenticità degli stessi testi profani e religiosi del mondo occidentale arrivati fino a noi.
Ma forse in Eco, animato da ideali politici egualitari, si potrebbe arrivare a intravedere più che altro un latente complesso di colpa originato dal successo commerciale di un romanzo giallo letterario, rivolto a lettori dotati di buona preparazione culturale, che lo aveva arricchito con notevoli e inattesi diritti d’autore, mandando a gambe ritte certi suoi ideali avversi all’opulenza.
Questo porta a pensare al comportamento di Cecco, cattocomunista ante litteram e molto rigoroso nelle sue idee, che intorno al Trecento, alla morte del padre Angioliero, banchiere, dilapida tramite i bagordi della Brigata spendereccia l’ingente eredità ricevuta, derivante per di più in massima parte dall’usura, tanto da lui odiata e avversata. La sua condotta finisce per farlo apparire il padre spirituale di un pensatore moderno, il tanto discusso, amato e odiato, Ezra Pound.
Non è del tutto da escludere l’insorgere in Eco di una sorta di disagio interiore, causato dal conseguimento di una ricchezza improvvisa, a lui sgradita: facendo un rapido conto sui diritti di autore, ricavati dal romanzo, calcolando solo tre o quattro euro netti per volume, si arriva a cifre superiori a quelle arcimilionarie di un sei fortemente ritardatario al Superenalotto, senza contare  l’introito ingente ottenuto dalla riduzione cinematografica del romanzo.
Di sicuro il professore, avversando il rigore eccessivo della Chiesa medievale contro le eresie, fece di questo il motivo dominante del romanzo coinvolgendo Aristotele, ma non fu sfiorato dal sospetto che la Poetica potesse essere un falso medievale.
Se l’avesse intuito, lui che si era anche occupato dei falsi nel mondo antico, il Nome della rosa forse oggi forse costituirebbe un’opera di grande rilievo, dalla quale sarebbe potuto emergere a poco a poco che le letterature greco-romane e medievali arrivate fino a noi siano prive di autenticità. Ma senza dubbio il libro non avrebbe raggiunto il numero di cinquanta milioni di esemplari venduti, perché i lettori preferiscono le storie romanzate a saggi scritti non certo per divertire, anche se capaci di sovvertire un assetto letterario ritenuto affidabile da secoli.
Della Poetica aristotelica  ho parlato qualche anno indietro in un capitolo del saggio Omero è nato a Siena (Betti editr., Siena 2011, pp.57-67), intitolato La “Poetica” e la “Retorica” di Aristotele: due falsi.
Non intendo annoiare i lettori riassumendo quelle dieci pagine. Mi limito a qualche particolare per me più significativo: nel secondo capitolo del primo libro l’autore parla di un’opera intitolata Deiliade, alla lettera La vigliaccheide, una parodia dell’Iliade scrittadal poeta comico Nicocare, sull’esistenza del quale non si sa niente di certo. Viene il dubbio che qui l’autore, a mio parere il ben noto senese, tiri in ballo un’opera frutto della sua fantasia di falsario.
Nel cap. IX si legge questo passo: Nella tragedia i poeti si attengono a nomi di personaggi esistiti, e la ragione è che il possibile diventa credibile: noi non crediamo possibile ciò che non è ancora accaduto, mentre, evidentemente, ciò che è già accaduto è sempre possibile. Infatti, se fosse impossibile, non sarebbe accaduto.
Questa appare essere la logica propria di un giullare senese esperto in sillogismi, che celandosi dietro a Aristotele si voglia prendere gioco dei lettori. Viene fatto di pensare a un passo delle Notti attiche in cui Aulo Gellio riporta la definizione aristotelica, tradotta, del sillogismo: Il sillogismo è un ragionamento nel quale, certune cose essendo ammesse e accettate, una cosa diversa da quelle che sono state ammesse deriva naturalmente dalle ammesse (XV 26).
Di quel falsario, recentemente da me scoperto come un senese molto piccolo, grasso, strabico, zoppo e balbuziente, celato anche sotto le vesti di Aulo Gellio, uno pseudonimo che parrebbe alludere per l’assonanza a Angiolieri, ho parlato anni indietro nel saggio La grandezza di Cecco sconvolge l’Europa (Aracne  2011, pp. 185-186).Sempre nello stesso capitolo citato delle Notti Attiche di Gellio viene fatta menzione di un vincitore con la quadriga nei giochi pitici del 374, Miti, morto in una sommossa: in Argo la sua statua avrebbe ucciso proprio il colpevole della sua morte, “abbattendoglisi sopra mentre la stava guardando”.
Plutarco, nel De sera numinum vindicta (553 d), riprende l’episodio arricchendolo, e questo lascerebbe trasparire sempre più evidente la sua vera identità di pseudonimo del falsario Cecco, da me individuata anche in altre opere attribuite allo scrittore greco di Cheronea.
Nel cap. XIII l’autore della Poetica stupisce il lettore definendo una tragedia l’Odissea. Una simile affermazione male si giustifica in Aristotele, mentre meraviglierebbe meno se risalisse al falsario Cecco, il quale non avrebbe tutti i torti a farla, se si pensa alle stragi presenti nell’ultima parte del poema, la cui paternità omerica è per me molto dubbia.
Cecco-Plutarco aggiunge che solo per debolezza d’animo gli spettatori desiderano che le tragedie finiscano bene, ma spesso la colpa è degli autori, i quali per compiacere i gusti del pubblico non tengono conto del fatto che il lieto fine è proprio della commedia, non della tragedia.
Per me la tragedia dell’Odissea è che il poema sia un falso di quel senese di genio, e che ancora nessuno se ne sia accorto.
Da quanto ho riassunto sembra di avvertire in Cecco l’intento di giustificare non solo qualche epilogo euripideo un po’ discutibile, ma anche le vicende atroci e truculente delle tragedie attribuite a Seneca, che tanto influenzarono Shakespeare, e verrebbe confermato il sospetto, se perfino Seneca fosse un suo pseudonimo, che il senese abbia messe le mani dappertutto, compresi i poemi di Omero.
All’inizio del cap. XV della Poetica si legge che la donna, pur avendo delle virtù, risulta inferiore all’uomo. Un simile concetto si ritrova anche nella Politica e nell’Historia animalium  aristoteliche.
L’inferiorità della donna è un argomento su cui Cecco-Aristotele ribatte spesso.
In un mio saggio (Da grovigli di falsi esce un Dante sconosciuto…ilmiolibro.it, Siena 2013)figura un articolo intitolato “La storiella di Aristotele in amore, montato a cavalluccio da Fillide, legata ai Carmina Burana” (pp. 39-42), nel quale si accenna a una leggenda, nata in Francia nel XIII secolo, a mio parere per mano di Cecco, il vero autore di quei carmi, “relativa al filosofo che perde la testa per la giovane Fillide, divenendo schiavo della ragazza, lui che in precedenza l’aveva allontanata dal suo alunno Alessandro il Macedone, troppo preso dalle sue attrattive sessuali”.
Aggiungevo alla fine dell’articolo: “Ecco la grandezza di Cecco: ha creato con Aristotele il filosofo più sapiente e grande mai esistito sulla terra, ma l’ha fatto innamorare e divenire uno zimbello, una docile cavalcatura umana, in mano a una bella donna. Ḕ la gaia scienza di cui parlava Nietzsche, che non certo per caso, insieme all’amico Paul Rée, si fece ritrarre in una fotografia nella quale la bella Lou Salomé teneva le redini di lui imbrigliato come un mulo paziente”.
Non per niente l’autore di Così parlò Zaratustra in seguito sosterrà che i filosofi farebbero meglio a evitare il matrimonio.  
La misoginia è presente perfino all’inizio del De vulgari eloquentia (I iv), opera che Dante non può avere composta per tanti motivi da me segnalati in vari scritti su cui nessun filologo classico o romanzo, troppo sicuro dell’autenticità del trattato, si è degnato di dire una sola parola. Verrebbe fatto di pensare anche a una vendetta del falsario senese contro il suo nemico fiorentino che avrebbe idealizzato troppo Beatrice.
Si potrebbe tirare in ballo la poca fortuna che il senese ebbe con le mogli, oltre alla bisessualità propria soprattutto dei suoi anni giovanili.
Penso a qualche passo dei dialoghi platonici, in particolare all’Apologia di Socrate, dove si arriva a sospettare nel filosofo la comprensibile aspirazione di morire, bevendo la cicuta, per farla finita con l’ingiustizia che deve subire, ma finalmente anche per liberarsi dal tormento della moglie Santippe, cavallaccia bionda (traducendo così il nome greco in base al senese antico), donna invadente e insopportabile, che pur con tutti i suoi difetti non era affatto scema, e doveva avere compresa la passione del marito per i giovani belli e intelligenti.
Socrate non ha lasciato niente di scritto e il suo alunno Platone gli ha attribuito il ricorso frequente al dubbio sistematico, ma finora nessuno è arrivato a capire che l’autore con quel dubbio mirerebbe non solo a destare nei lettori sospetti sull’autenticità delle opere del filosofo, ma anche su quella degli scritti molto numerosi di altri autori.
Significativo il fatto che Socrate dedichi nelle ultime ore di vita solo pochi istanti “alle sue donne di casa” e ai suoi tre figlioletti per tornare a parlare con Critone, Fedone e gli altri. 
Nel senese il comico e il tragico convivono: lui è Aristofane, Euripide e Plauto, e sul misoginismo sembra trovarsi in pieno accordo con Esiodo, Simonide, Teognide, Euripide, Platone, Aristotele e Callimaco, tutti autori a lui strettamente legati.
Ma anche ammettendo che l’autore della Poetica sia il vero Aristotele, i dubbi maggiori emergerebbero con forza dalla sua conoscenza troppo minuta e attenta di tanti drammi greci. Aristotele appare essere non tanto un filologo quanto un filosofo e uno scienziato naturalista, mentre l’Angiolieri è soprattutto un grande letterato, un poeta e romanziere immenso, con la passione per la cultura enciclopedica e la filosofia in particolare.
Quest’ultima è una materia un po’ ardua, ma nel nostro mondo contemporaneo sta riscuotendo sempre maggior favore e successo, cosa che forse ha indotto di recente qualche specialista italiano appassionato, ma senza dubbio anche interessato, a proporre di introdurne lo studio perfino nelle scuole professionali e addirittura nella scuola media unica.
Cecco, senese del Due-Trecento, pensava in grande: mediante la cultura, il genio e la costanza con cui portava avanti i suoi disegni, seppe costruire un vasto edificio letterario che non rimase incompiuto come la cattedrale della sua città. Di quella sua creazione falsa e magnifica non si conoscono ancora a fondo i confini.
Qualcuno ha definito Umberto Eco “il maestro di color che sanno” del mondo medievale.
Per me questo giudizio dovrebbe essere rivisto. Qui ci sarebbe di mezzo non solo la conoscenza approssimativa di un autore come Aristotele, ma anche una bufera letteraria da cui sta per essere investita una cultura ritenuta per secoli autentica e tanto affidabile da aver costituito finora la base della civiltà europea.
Le cose si stanno complicando, e sarà difficile che la società cosiddetta occidentale possa trovare con rapidità un terrenosicuro su cui impiantare nuove fondamenta per il poco che resterebbe di autentico nella cultura del passato.
Chi trovasse da ridire su queste osservazioni emerse dall’analisi del romanzo di Eco, attraverso il mio saggio recente Una tempesta letteraria mette a soqquadro la “Commedia” di Dante e la cultura europea (di cui si può conoscere il contenuto cliccando in internet sul mio nome), partendo proprio dalla Commedia, rimasta incompresa per secoli, potrà venire a conoscenza di novità sostanziali dovute all’attività del falsario senese, capaci di mutare l’interpretazione di tutta quanta la letteratura europea che va da Omero fino al tempo del Boccaccio, quest’ultimo un autore universalmente molto amato e letto, ma a mio parere destinato presto a cambiare addirittura nome, se perfino Omero e Virgilio e molti altri grossi calibri non sono usciti molto bene dalla disamina di una letteratura che non appare più quella basata sulla visione unanime di tanti specialisti del tempo passato e di quello presente.
Il saggio in causa, per quanto possa far discutere, tuttavia è dotato di caratteristiche tali da far cambiare radicalmente l’interpretazione del patrimonio culturale del passato, vista l’affidabilità di certe mie prove ricavate dalla Commedia e dal Decameron, rese note di recente anche sulla rivista “Le Antiche Dogane”, ma accolte dalla cultura accademica con il solito e comodo silenzio tipico di accademici sprezzanti delle ricerche di un maestrucolo in pensione estraneo al loro mondo.
Il professore Umberto Eco, appassionato medievista, non si sarebbe certo aspettato che il suo romanzo di maggiore successo, dopo circa quarant’anni, dovesse vedersela con gli scompigli provocati dalla vendetta postuma di un giullare colto senese tardomedievale, in cui ho riconosciuto, fra gli altri suoi numerosi pseudonimi, Giovanni Boccaccio. Basterebbe un particolare come questo per rendere le mie congetture meritevoli di attenzione. Quando gli studiosi dormono cullandosi troppo su un assetto letterario discutibile, ritenuto valido per secoli, uno come me che ha da dire qualcosa di nuovo interviene anche per mettere in dubbio la legittimità della spesa di enormi somme di denaro, destinate alla pubblica istruzione, che i contribuenti, non solo italiani, versano ai propri Stati.